SIMBOLI E MITI NEL FILM Il Silenzio degli Innocenti

Traduzione di

EUGENIA GALEFFI e MAURO PORRU

Prefazione di
JOSÈ CARLOS MONTEIRO
PROFESSORE DI STORIA DEL CINE
ALL’UNIVERSITÀ FEDERALE DI RIO DE JANEIRO

1996

PREFAZIONE

Come una sfinge, Il Silenzio degli Innocenti si è imposto, quale antropofago, alla stragrande maggioranza dei critici che si sono impegnati a decifrarne gli enigmi. Molti, frettolosi e superficiali, hanno evitato la sfida. Hanno preferito scartare il film come se si trattasse solo di un thriller carico di tensioni ed efficace — un adattamento criterioso e solido dell’omonimo romanzo di Thomas Harris senza la trascendenza che alcuni esegeti si ostinavano a vedere al di là della sua apparenza “hollywoodiana”. Così, con quest’atteggiamento evasivo, si risparmiavano l’imbarazzo di non aver trovato risposte adeguate agli innumerevoli misteri latenti nel capolavoro di Jonathan Demme. Ma altri critici, irresistibilmente affascinati dal lussurreggiante simbolismo del film, hanno deciso di esaminarlo più profondamente, cercando di andare oltre le apparenze formali del primo impatto.

Ma chi ha rivelato le qualità immanenti e trascendenti del film in tutti i loro aspetti non sono stati i critici cinematografici, ma gli studiosi dei miti e dei simboli. Uno di essi, Olavo de Carvalho, ne è in modo particolare, riuscito ad elucidare le metafore, le realtà archetipe e le suggestioni esoteriche di The silence of the Lambs. Nelle conferenze tenute presso la scuolaAstroscientia in occasione della presentazione del film, il suoinsight ha interpretato sotto nuovi punti di vista non solo la narrativa e il suo significato, ma anche la rappresentazione e le immagini “costruite” dal regista nordamericano. Da quest’analisi, affascinante e — oso dire —   definitiva, emerge la visione di un’opera densa e profonda, esoterica ed iniziatica, unica nell’ambito del cinema americano degli ultimi tempi. In Europa, il russo Andrei Tarkovsky (  Andrei Rublev, Solaris, Stalker  ), il francese Robert Bresson (  Pickpocket, Lancelot du Lac, Le Procès de Jeanne D’Arc ), l’italiano Ermanno Olmi ( L’Albero degli Zoccoli ), il greco Theo Angelopoulos ( Passaggio attraverso la Nebbia, Il Viaggio dei Commedianti ) e — perchè no? — il polacco Andrzej Zulawski ( La Terza Parte della Notte ), scrutanono già da molto tempo, nei loro film, i tormenti intimi, i dolorosi processi della “conoscenza del dolore”, le vicissitudini di chi passa dal crollo alla redenzione.

Olavo de Carvalho da un lato, dimostra di possedere un interesse per le arti simboliche, per il mondo dell’invisibile, e dall’altro, dimostra una profonda comprensione dei mezzi usati dall’ideatore, per poter fare della sua opera un film classico e moderno allo stesso tempo. Con molta chiarezza, senza un’erudizione libresca, ma con un notevole dominio delle fonti su cui si basa, Olavo de Carvalho porta la sua interpretazione riguardo la simbologia di The Silence of the Lambs a dei livelli raffinatissimi. Per come lo vede lui, il lavoro di Jonathan Demme è stato ideato e gestito in modo da rattificare la traiettoria iniziale dei personaggi (  in particolare i protagonisti centrali dell’intreccio, l’astuto e cannibalesco Dott. Hannibal Lecter, l’esitante detective Clarice Starling, il misterioso capo dell’FBI Jack Crawford e l’allucinato serial killer Jame Gumb ). E ancora: Demme, secondo l’analisi di Olavo de Carvalho, voleva innanzitutto fare del suo film “un apologo sul conflitto tra l’intelligenza umana e l’astuzia diabolica” — un apologo sul tragitto dell’iniziazione autoconoscitiva.

Diderot asseriva che “tutta la vera poesia è emblematica”. Se così è, si può dire che Il Silenzio degli Innocenti contiene poeticamente, in ogni immagine, tutti gli emblemi della ricerca dell’individuazione, della rivelazione, della verità. Attraverso il tragitto di Clarice Starling, Jonathan Demme evoca l’itinerario dei cavalieri medievali alla ricerca del Santo Graal, di tutti i mistici nel confrontare le tentazioni del Mondo e del Diavolo. Nel suo testo, come se si trovasse in un cosmoprocesso estetico e spirituale, Olavo de Carvalho ridimensiona le angoscie e le perplessità della figura di Clarice Starling, per poterci far capir meglio i suoi gesti, i suoi atteggiamenti. E, come se fosse davanti ad una lente d’ingrandimento, ( ri )configura ogni piano: ogni sequenza de Il Silenzio degli Innocenti per poterci infine, dare un nuovo film. Presumo addirittura per il suo autore.

Josè Carlos Monteiro

Radio Jornal do Brasil

NOTA PREVIA
ALLA PRIMA EDIZIONE BRASILIANA

Questo libro trascrive — senza alterazioni tranne che per i particolari di stile — la dispensa distribuita ai fruitori delle tre conferenze che, sotto il titolo “Interpretazione Simbolica del Film Il Silenzio degli Innocenti”, ho pronunciato alla scuolaAstroscientia, di Rio de Janeiro, nel luglio 1991, quando il film era ancora in prima visione.

Alcune copie sono state anche distribuite a persone dell’ambiente del cinema e della stampa; ma circostanze fortuite ed avverse hanno impedito che si fosse fatta allora una regolare edizione, la quale ora è possibile grazie alla generosa collaborazione di Stella Caymmi e Ana Maria Santos Peixoto.

Avendo vinto il film cinque Oscar nell’aprile 1992, mi pare ora il momento buono per rimetterlo in discussione, cercando, per la seconda volta, di andare un po’ oltre i soliti commenti banali ( quando non francamente erronei ) che sono stati l’unica reazione della critica nazionale quando c’è stata la sua proiezione.

Questo libro appartiene ad un genere anacronistico e sicuramente susciterà una certa perplessità da parte di un pubblico abituato a ricevere, sotto l’involucro di “critica del cinema”, ciò che è in effetti assolutamente differente. È che diciotenne — due decenni e mezzo fa, e in un altro Brasile — non era peccato scrivere dei lunghi saggi su di un film; non era peccato pensare, investigare, tentare di approfondirne il senso. Saggi come questo erano pubblicati sulla stampa in ogni momento, e noi, giovani aficionados, appena terminava lo spettacolo correvamo alla ricerca delle parole sagge di Almeida Salles, di Paulo Emìlio, di Guido Logger, di Alex Vianny e di tutti coloro che si dedicavano al mestiere di aiutarci a comprendere l’arte del cinema; mestiere che oggi come oggi soffre dello stigma e della riprovazione comune, tranne che quando esercitato discretamente dentro il ghetto universitario. Le pagine critiche dei giornali hanno un’altra finalità, e pensare in pubblico è diventato indecente. Mi dispiace ferire la decenza popolare: è che, decisamente, appartengo ad un’altra epoca.

Olavo de Carvalho

SIMBOLI E MITI NEL FILM
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

Il Silenzio degli Innocenti ( “The Silence of the Lambs” ) è ben più di un thriller abilmente realizzato o del dramma della passioneche la critica brasiliana vi ha scorto. Se colpisce così profondamente la platea, non è solo per il fascino macabro del tema, per la destrezza quasi allucinante della direzione o per le interpretazioni toccanti di Anthony Hopkins e di Jodie Foster, quanto per il simbolismo profondo della sua favola. Anche se la coscienza dello spettatore non se ne accorgerà, questo simbolismo non può fare a meno di colpirlo nell’intimo della sua condizione umana, per la forza di un linguaggio universale. Questo raggiungimento simbolico eleva il film di Jonathan Demme alla categoria del grande capolavoro.

Come ogni grande opera d’arte, questo film fa scatenare delle sensazioni che vanno oltre al mero godimento estetico immediato, e riecheggiano in benefici psicologici di grande portata. Mai, da “M: il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang, o “Vergogna”, di Ingmar Bergman, il cinema è stato così vicino a realizzare una percezione come quella della tragedia greca, che, secondo le parole di Aristotele, era quella di ispirare “terrore e pietà” o più precisamente, la pietà mediante il terrore: purificare l’uomo e renderlo incline al bene mediante la visione dell’Assurdo e del male inerenti all’ordine cosmico.

Tuttavia, per poter sfruttare pienamente i benefici che quest’opera ci porta, bisogna andare allora al puro impatto estetico iniziale e approfondire una coscienza intellettuale del suo significato. L’insegnante che addita e avverte, mentre fa girare l’attenzione dello spettatore verso i punti significativi e le strutture profonde, prolunga così e potenzia il lavoro dell’artista, al tempo stesso nel quale apre i canali per un incontro con l’anima del pubblico.

Questo sarebbe, a rigore, il compito della critica. Non riesco a concepire il critico militante se non come una specie di educatore, nella linea proposta da Mathew Arnold. Non c’è da stupirsi, pertanto, che molto spesso io mi rissenta ( disilluda ) con la critica nazionale, cinematografica, letteraria o teatrale che sia: questa si è ridotta alla mera notizia, all’apprezzamento secondo schemi tecnico-industriali o all’espressione di sentimenti personali. Queste tre modalità di anti-educazione sono state grandemente praticate a proposito de Il silenzio degli Innocenti. Così si è persa una grande opportunità. Nelle pagine che seguono, faccio quello che posso per rimediare a questa carenza.

Inizio con un esempio. L’articolo di Márcia Cezimbra ( Quaderno Idéias del Jornal do Brasil, 2 giugno 1991 ) mette i lettori su una falsa pista, con la quale non si arriverà mai a capire il film. Ma lo sbaglio deve esser passato inosservato, giacchè molti spettatori, che ho interpellato, hanno recepito la storia esattamente come lei: una favola del desiderio, il dramma della passione occulta tra uno psicopata antropofago e una bella agente dell’FBI. Questa interpretazione è stata accettata da quasi tutti i critici.

Io non avrei il coraggio di oppormi a tanta rispettabile unanimità, se essa non fosse in contraddizione anche con le opinioni dei due attori principali, espresse in interviste che o non sono state lette o non sono state prese in considerazione in Brasile. Hopkins dice che il Dott. Lecter — il supposto oggetto dei desideri dell’eroina Clarice Starling — è veramente il demone. Non è un demone, ma il Demone, nome proprio. E Jodie afferma che Clarice è una vera eroina come non c’è mai stata al cinema, perchè, nel quadro di un dramma mitologico, lei deve “lottare contro i demoni e conoscere se stessa”. Ed è stata proprio questa anche la mia interpretazione riguardo al film: la lotta di un’eroina socratica per dissotterrare la verità dal profondo delle tenebre, della menzogna, della follia. Jodie ha ragione nel dire che un’eroina di questa portata al cinema non c’è mai stata ( con un’unica possibile eccezione, lo osservo, di Giovanna D’Arco di Robert Bresson ). Ma raggazzine affascinate da mostri sexy sono una cosa banale che possiamo vedere ogni settimana nei serials televisivi, calcati in King Konge La Bella e la Bestia. Se Jodie e Hopkins hanno ragione, allora i critici brasiliani si sono profondamente sbagliati.

Il motivo di non aver centrato il bersaglio, è in certi tic mentali che si sono introdotti a mo’d’epidemia tra gli intellettuali brasiliani, e che fanno scorgere il tutto attraverso una linea obliqua pre-fabbricata. In Brasile le parole “desiderio” e “passione” in questi ultimi anni sono diventate chiavi universali, applicabili a destra e a manca per spiegare il tutto. È anche un fenomeno locale l’onda di nietzschianesimo militante, che non riesce a far scorgere qualcosa di buono che sotto forma di un male almeno apparente e che riscontra in ogni affermazione esplicita di valori positivi un sintomo di ipocrisia o di falsa coscienza. Da questo punto di vista, tutto al mondo è simulazione e auto-inganno: tolti i veli della finzione, viene a galla l’unica vera realtà, la quale, in tutti i casi e circostanze, consiste sempre e solamente in “passione” e “desiderio”, con dei tocchi di machiavellismo indossato come naturale e sano a titolo di “sincerità”. L’ermeneutica da ciò risultante — e che i suoi cultori applicano indistintamente a sintomi psicopatologici, a manifestazioni dell’arte e del pensiero, a istituzioni e costumi, insomma, a tutto, meno che alle proprie idee — è rigida, meccanica, e ripetitiva fino alla demenza. Non occorre dire che la tendenza a veder le cose da quest’ottica maliziosa è un fenomeno sociologico brasiliano, facilmente spiegabile, data la delusione dei nostri intellettuali per la democrazia tanto duramente conquistata e tanto velocemente guastata. Visto da questa ermeneutica, il Sole è mosso dalle ombre e, evidentemente, il polo attivo della trama de Il Silenzio degli Innocenti non può che essere il Dott. Lecter. Logicamente: lui è il cattivo, dunque dev’essere il buono. Il demone intelligente esercita un fascino sull’intellettualità sconfitta, che, vedendo la vittoria dei malvagi sul mondo, sogna di diventare come loro; e, ipnotizzata dal sorriso maligno del Dott. Lecter, attribuisce le stesse sensazioni a Clarice Starling, senza notare che, con ciò, non ne fa un’interpretazione ma una proiezione.

Storie di smascheramenti di valori, dove il bene può apparire soltanto sulla forma inversa di una “sincerità” del male esplicito, sono di moda in Brasile, per esempio nelle telenovelas. Sono tipiche di situazioni sociali dove una intellettualità rifiutata e marginale si corrode in risentimenti: con quale sollievo e conforto il giovane genio vilipendiato riceve allora la notizia che Nietzsche valorizzava il risentimento come metodo ermeneutico, e che Freud vedeva nel sospetto l’attegiamento interiore più propizio all’investigatore psicologico! Avvelenare il mondo, nell’espellere risentimenti e sospetti da tutti i pori, diviene allora la suprema forma di attività intellettuale, una modalità superiore dello scibile scientifico. Questo è lo stato di spirito dominante nell’intellettualità brasiliana, almeno nella sua parte più rumorosa ( e apparentemente nessuno si rende conto che c’è una contraddizione tra lo stimolare la malizia e pregare la moralità pubblica ).

Ma, nel cinema nordamericano, ciò che si scorge oggi è l’esatto contrario: è una tendenza attuale affermare esplicitamente e letteralmente i valori positivi, come si nota per il successo avuto dal Ballare con i lupi: un’apologia diretta e “ingenua” del bene e dell’onestà. Non sarebbe più logico interpretare Il Silenzio degli Innocenti alla luce di questa tendenza dominante nel suo paese d’origine, che stringerlo per forza nella cornice delle preoccupazioni locali e momentanee degli intellettuali brasiliani? Detta in un altro modo: la mia ipotesi è quella che il direttore Jonathan Demme e il regista Ted Tally hanno voluto fare un apologo sulla lotta tra l’intelligenza umana e l’astuzia diabolica, infischiandosene della passione, del desiderio, Freud, Nietzsche e così via. L’onda di Freud e Nietzsche negli USA è finita. Qui si cercano di forzare le situazioni per poter vedere le cose da quest’ottica, e il risultato è quello di scorgere ciò che non esiste, e così si persuade il pubblico a credere che ciò esista.

È certo che sussistono passione e desiderio nella storia de Il Silenzio degli Innocenti, ma sono là come pretesti ( tra altri argomenti ) e non come fondamenti della forma e della struttura, che, in questo, come in qualsiasi altro film, sono la cosa più determinante.

E certo pure che il Dott. Lecter è affascinante, soprattutto perchè è enigmatico e ambiguo. Ma tra dire che questo fascino è riuscito ad avviluppare Clarice nella rete della passione, ne corre abbastanza. È come la differenza che esiste tra possedere una pistola e commettere un omicidio. Il Dott. Lecter è affascinante, sì, ma Clarice è abbastanza scaltra. Già a partire dalla fase iniziale del loro duello di bramosie, il primo che abbassa gli occhi è Lecter, e non lei ( ho rivisto il film solo per togliermi questo dubbio ); lei continua a essergli superiore anche quando sfida Lecter a conoscere se stesso mentre lui se ne va, irritato; e infine lei non ne esce dal primo appuntamento senza ottenere almeno una parte di ciò che in effetti voleva. Già dal primo round lei vince su Lecter per tre a zero, non cedendo mai nulla. L’unico vantaggio che lei offre a Lecter è soltanto apparente; è uno stratagemma ideato da Jack Crawford per indurre Lecter a collaborare; e la restituzione dei disegni, alla fine, è solo un pretesto per poter ottenere da Lecter un’informazione in più. Appuntamento dopo appuntamento, lei diventa sempre più sicura di sè. ( “So che lui non mi cercherà”, dice assicurandolo a una sua amica Ardelia Mapp, nel momento in cui tutta la platea suda per paura che Lecter faccia dell’eroina la sua cena ). E alla fine, sappiamo che Lecter, sebbene dissimulasse e borbottasse, aveva già dato a Clarice tutto il servizio. La ragazza è in gamba.

Il personaggio Lecter è abbastanza vistoso, ma ciò non ci deve far equivocare il potere che ha in effetti nella trama. Infine, tutto ciò che accade ( salvo degli incidenti di percorso che non interferiscono per niente sul risultato finale desiderato, e cioè, sulla cattura di Buffalo Bill ), tutto è stato ideato previamente dal capo di Clarice, Jack Crawford. Egli sapeva che Lecter era isolato in cantina ed ansioso di avere un contatto con il mondo; che non vedeva una donna da otto anni, che era al corrente delle informazoni su Buffalo Bill; e che Clarice poteva ottenere da lui tutto ciè che voleva. Crawford è l’unico che, fin dall’inizio, percepisce tutto il quadro delle possibilità e, con l’ingegnosità di un demiurgo, mette in moto le ruote del destino. Lecter già lo conosce da lungo tempo, e lo teme ( al contrario degli altri nemici, che sdegna ). Lui sa che è tutto un piano di Crawford e, ancor prima che gli chiedano qualcosa ( in quanto Clarice stessa ancora ignorava lo schema ), è d’accordo nello svolgere la sua parte. Lui cerca soltanto di ottenere con ciò un vantaggio collaterale, che consiste, non in mangiare Clarice ( in qualsiasi senso del termine ), ancor meno ad opporsi agli obiettivi di Crawford, ma sì, molto più modestamente, in avere un’occasione di squagliarsela.

Crawford, come il patriarca Abramo della narrativa coranica o il San Bernardo della leggenda medievale, ha fatto lavorare il diavolo per lui, il male a servizio del bene. Lui ha qualcosa del mago Prospero, della Tempesta di Shakespeare, che manipola gli elementi cupi e, vincendo l’improbabilità, riesce a portare tutto ad un lieto fine con la vittoria del bene e della luce. Lecter, a sua volta, potrebbe definirsi come il Mefistofele di Goethe:

Sono parte dell’Energia
Che sempre il Mal
intende e che Il Bene sempre crea.
(  Fausto, I, trad. Jenny Klabin Segall.  )

Un detto francese narra che il diavolo si fa carico delle pietre; perchè alfine, qualcuno deve pur fare la parte sporca del lavoro. Considerando che Lecter non crea delle difficoltà a Crawford, e che non attacca Clarice, e che tutti quelli che uccide nel film sono suoi persecutori, e non delle vittime innocenti come quelle di Buffalo Bill, il prezzo dei suoi servizi è addirittura modesto. Lecter leggeva nella mente degli altri, ma Crawford leggeva in quella di Lecter, laddove egli stesso non scorgeva proprio nulla. I nostri critici non si sono accorti che, dietro alla lotta Clarice-Lecter e Clarice-Bill, il duello a distanza tra i due psicologi è il vero motivo che struttura la trama, e dalla quale echeggia appena un antichissimo motivo delle narrative iniziatiche: il “duello dei maghi”.

Se Clarice non si lascia affascinare da Lecter, lui sì rimane affascinato da lei ( proprio come era stato pronosticato da Crawford ); e, sotto l’apparrenza aspra di uno strizza-cervelli che prova a smascherarla e dominarla, in fondo è lui che la idealizza e la venera; sul suo tavolo, nella gabbia costruita per catturarlo al Foro della Contea di Shelby, uno dei disegni da lui fatti mostra Clarice, circondata da un alone luminoso, con un agnellino in grembo. È un icona. Avendo cercato di sondare la mente di Clarice, egli sa perfettamente ciò che ha trovato laggiù. Come potrebbe un vecchio demone esperto far riconoscere l’immagine della Santa Vergine? Strappata dall’occhio perspicace, l’identità della professional woman ciò che appare dentro Clarice non è un fascio di banali desideri freudiani, è sì il pianto della Vergine davanti al sacrificio dell’Agnello, che lei non può impedire. Bisogna esser ciechi per non scorgere nel film un riferimento evangelico così evidente.

Ma la “brava Clarice”, come la chiama Lecter, se è capace di riconoscere con tanta franchezza le debolezze umane che Lecter svela in lei, ignora invece l’identità superiore che lui ne ha scorto dietro. Per questo lui può continuare a fingere di snobbarla e ingannarla, mentre di nascosto la venera e ne è schiavo. Anche il Diavolo è servo di Dio, sebbene ambiguo e recalcitrante: il vecchio ribelle cerca di salvare le apparenze. L’ambiguità di servire il Bene con la peggiore delle intenzioni è una delle tracce che definiscono il Belzebù, e lei ne fa, tradizionalmente, un personaggio da farsa piuttosto che da tragedia. La letteratura universale non ha fatto a meno di sfruttare questo abbondantemente, da Marlowe a Goethe fino alla nostra letteratura popolare (  Peleja de Manuel Riachão contra o Diabo — “Lotta di Manuel Riachão contro il Diavolo”  ) e il teatro popolare di Ariano Suassuna (  Auto da Compadecida — “Auto dell’Indulgente”; A pena e a Lei — “La Pena e la Legge”  ). È da questa ambiguità che proviene il fascino sottile che scorgiamo nel mostruoso Lecter; come ha ben osservato Anthony Hopkins in una sua intervista, “il diavolo ha il senso dell’humour”: quando il terribile va oltre un certo limite, diventa buffo. È un ricercato pedantismo voler trovare ragioni psicanalitiche per poter spiegare l’attrazione del Diavolo, quando si tratta soltanto di un topos (  un luogo-comune o uno schema ripetibile  ) della letteratura narrativa universale, e che funziona sempre quando viene usato con arte.

Clarice, dal canto suo, non si illude nei riguardi di Lecter. Quando un ragazzo dell’ascensore le chiede se lui è un vampiro lei gli risponde che “non esiste nome per ciò che lui è”. Quello che non ha nome non ha essenza, il che è un modo di dire che non è nulla. Non è una coincidenza che questo discorso anticipi immediatamente la scena in cui Lecter raccomanda a Clarice d’attenersi all’essenziale, lasciando stare l’accidentale. Secondo un’antichissima teodicea, il male non è propriamente un essere, ma un certo effetto accidentale della confluenza inopportuna tra dei beni di diversa specie (  per esempio, è bene amare una donna ed è bene avere un amico ), ma può succedere di amare la moglie dell’amico. Il male è un “ombra”, non un “corpo”. Studiando una setta satanica contemporanea, un autore informato paragona il male ad un totale di assenze, il quale dà origine a una forza di suzione che, non potendo sussistere in sè e per sè, si unisce e si appoggia al lato oscuro o mal conosciuto delle cose. Socrate e il vedantismo andavano oltre, decretando che l’unico male è l’ignoranza. Il fascino per il potere maligno, il soggiacere dinanzi al male, vengono proprio da quelle zone dell’anima che ci sono più sconosciute: vengono dall’inconscio, deposito, secondo Freud, dei desideri e delle immagini rifiutate e temute dal conscio. Cercando di sfuggire allo sguardo malizioso che penetra le difese del conscio, la vittima impaurita si prostra davanti l’avversario, nella speranza di ottenere la sua clemenza. È precisamente questo il lato che Clarice non offre a Lecter: quando lui tenta di smascherarla psicologicamente, lei non fugge, non si nasconde dietro a delle vane difese, nè cerca di intenerire l’avversario per placare la durezza del suo sguardo penetrante; con una schietta franchezza, lei riconosce la veracità dei sentimenti infantili che Lecter, discerne nel suo intimo: la trasparenza dei suoi moti e la ferma accettazione della verità finiscono per trasmutare lo sguardo maligno di Lecter, facendo sì che alla fine la perspicacia dell’avversario venga a favorirla. Con l’intenzione di disarmarla, Lecter trova in fondo a lei la roccaforte invincibile del retto intento. Ed il diavolo, che sdegna chi lo adora, si arrende con ammirazione dinanzi all’eroina che ama la verità.

Nella sua lezione di Logica sull’essenza e l’accidentale, Lecter cita Marco Aurelio. L’imperatore romano è stato uno dei grandi filosofi dello stoicismo, scuola che pregava l’abstine et sustine: non attaccamento e fermezza. Non è questo l’unico riferimento stoico, nel film. Fin dall’inizio Clarice appare ad allenarsi in un bosco nel retro bottega della sede dell’FBI a Quantico. All’ingresso del bosco, tre cartelli di legno inchiodati sugli alberi esortano il poliziotto principiante a sopportare il dolore, l’agonia e la sofferenza. Un quarto cartello aggiunge al messaggio stoico il comandamento cristiano: Ama. Due gocce di stoicismo in un solo film sono sufficienti per richiamare la nostra attenzione. Nel caso in cui il Dott. Hannibal Lecter non sia un intellettuale brasiliano che cita senza leggere, varrà la pena dare un’occhiata a questo Marco Aurelio.

La mescolanza di comandamenti stoici e cristiani non è strana. Fin dall’antichità i filosofi cristiani si sono accorti del valore dell’etica stoica e hanno cercato di assorbirla nel Cristianesimo. Marco Aurelio diceva, per esempio, che l’aspirante saggio non deve fuggire al male, ma abituarsi a guardarlo in faccia per poterlo neutralizzare, restando così immune al suo fascino. Dall’altro lato della sua aphateia (   assenza di emozioni  ), il saggio ormai fatto, potrà allora rimuovere il male con la forza del suo sguardo obiettivo e sereno, che chiama le cose coi suoi veri nomi, senza nulla aggiungere e toglierne (  è la “semplicità” intellettuale, citata da Lecter  ). Ma, in fondo all’aphateia, il saggio deve sempre serbare un atteggiamento di “clemenza comprensiva”, una specie di bontà o compassione intellettuale, non emotiva. Consiste nell’esser aperti alla comprensione del tutto, anche di ciò che è ripugnante, ma senza lasciarsi influenzare emozionalmente.

Aphateia e “clemenza comprensiva”, sono appunto i termini più adeguati a descrivere l’atteggiamento di Clarice davanti a Hannibal Lecter; lei non lo odia, non lo teme, non lo ama, non lo sdegna; lei lo osserva e l’ascolta, senza chiudersi nè lasciarsi soggiogare. Ella sostiene fermamente ( sustine et abstine ) la sua posizione dinanzi a Lecter, senza allontanarsi di un sol millimetro dalla clemenza comprensiva, da un lato, e, dall’altro, dalla fedeltà al dovere. Il che fa equilibrare i due piatti della bilancia stoica, in fondo, è la compassione per le vittime di Buffalo Bill: gli agnelli che lei desidera salvare. Clarice personifica la sintesi di stoicismo e cristianesimo annunciata dai cartelli nel bosco.

Alcuni filosofi cristiani hanno rimproverato allo stoicismo il carattere meramente passivo e reattivo della sua etica: esso enfatizzerebbe troppo la pazienza, la resistenza, l’astinenza, e meno il sacrificio attivo e la lotta per il Bene. Le virtù stoiche sarebbero, insomma, esclusivamente “femminili”, senza il segno virile del Cristo-Re. Un vero stoicismo cristiano, per poter esistere, dovrebbe iniettare qualche istamina nel vecchio e stanco Marco Aurelio.

Ma il cristianesimo non disprezza, in quanto tali, le virtù “femminili”. La sua epitome, nella visione cristiana,è appunto la Santa Vergine. Ella non “fa” propriamente nulla in tutta la narrativa evangelica. Obbedisce soltanto, patisce, aspetta, e piange dinanzi all’inevitabile. Anche Clarice soffre passivamente dinanzi alla impossibilità di salvare gli agnellini seppure ce ne sia uno. Patisce anche, attonita come gli agnelli, dinanzi alla morte del padre. È da questo dolore inerme, però, che nasce la vocazione della Clarice combattente, che affronta Lecter e spara a Buffalo Bill abbattendolo: così come dalla Vergine “passiva” nasce il Cristo, prototipo del sacrificio attivo, e così come dal pianto “inutile” della madre ai piedi della croce nasce l’innumerevole folla dei fedeli. L’antichissima liturgia ripete il ciclo, laddove dalla Chiesa che patisce nasce la Chiesa che combatte, e da questa la Chiesa che trionfa.

La stessa dialettica del passivo e dell’attivo come forze che nascono una dall’altra si ripete nel personaggio complementare di Clarice, Jack Crawford. Ma, in pratica, lui non partecipa direttamente all’azione. Il suo unico tentativo di interferenza personale ( quando invade la casa di Buffalo Bill a Calumet City ) è uno sbaglio di cui si pente: avrebbe dovuto lasciare tutto in mano a Clarice, come sembrava fosse il suo intuito iniziale. Ma anche i guru falliscono, almeno nella narrativa iniziatica, poichè là loro rappresentano lo Spirito, e non lo sono veramente, ciò che anzi dà la misura delle differenze tra questo genere narrativo e le epopee sacre e mitologiche che ne costituiscono il modello.

Qui devo spiegarmi più accuratamente. Epopee sacre e mitologiche sono quei poemi narrativi che, per tutta una civiltà, hanno avuto il prestigio di possedere delle verità rivelate; dalle quali provengono la cosmovisione, i valori, le leggi e i principi educativi che presiedono la vita di tutta la comunità umana attraverso i tempi. Narrative iniziatiche: sono delle storie prodotte dopo, e che, senza usufruire di questa stessa autorità, funzionano, per certi gruppi e individui, a mo` di insegnamento spirituale o religioso. Le narrative iniziatiche trattano di solito circa aspetti o parti delle epopee sacre, che esse prolungano, illustrano, commentano e specificano, adattando il fondo del messaggio spirituale alla mentalità ed al linguaggio di una nuova epoca. Costituiscono, così, un rinvigorimento, un aggiornamento di certe potenzialità spirituali, che rischierebbero di indebolirsi con il passare dei tempi ai cambiamenti del linguaggio, che possono rendere difficile la lettura e la comprensione diretta delle stesse epopee sacre. Così, per esempio, sono narrative iniziatiche la Divina Commedia di Dante, Il Flauto Magico di Mozart, il Faust di Goethe, la tragedia greca nella sua totalità. I Lusiadi di Camões, La Regina delle Fate di Spenser, e, ai tempi nostri, Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann. Sono epopee sacre i poemi di Omero, il Baghavad-Gita, il Corano, Il Vecchio Testamento, i Vangeli, ecc.

La differenza tra epopea sacra e narrativa iniziatica consiste fondamentalmente nel fatto che gli eroi della prima sono degli dei, semidei o, in un quadro monoteista stretto, aspetti di Dio o forze di origine divina. Gli eroi della narrativa iniziatica, senza avere dei poteri divini nè parlare diretamente in nome di Dio, sono degli esseri umani di stampo eccezionale, protetti o guidati da vicino da forze divine, la cui presenza ed attuazione mondana essi stessi rappresentano in modo più o meno sottile o indiretto.

Sia per l’epopea sacra, quanto che per la narrativa iniziatica i personaggi di maestri o guru rappresentano sempre lo Spirito divino, che conosce tutto in anticipo e dirige dall’alto i passi di un discepolo, il quale personifica l’Anima umana in via di spiritualizzarsi o divinizzarsi. Una netta differenza tra i due generi è che nell’epopea sacra il maestro è lo Spirito divino in modo letterale ed integrale ( nell’Odissea, Mente è Minerva dea della saggezza; nel Baghavad Gita Krishna è un aspetto di Brahma, ecc. ); nella narrativa iniziatica, invece, il personaggio del maestro è soltanto un essere umano più o meno legato da vicino ad un sapere divino; è un sacerdote, un mago, un saggio, e non un essere divino; per questo, nel guidare “divinamente” il discepolo, non è esente da errori umani. Per esempio, Merlin, nel Santo Graal, perde temporaneamente il sopravvento per Morgana La Fata; Sarastro è temporaneamente sconfitto dalla Regina della Notte, ecc.

La narrativa iniziatica, sebbene possegga delle leggi strutturali che la definiscono, può essere innestata in una infinità di diversi generi narrativi, nella letteratura novellistica, nel teatro, nella poesia epica o nel cinema. La sua struttura profonda è compatibile con i rivestimenti più vari, dal fantastico al “realista”. Gli unici elementi indispensabili sono il maestro, il discepolo, l’avversario, e le peripezie che purificano l’anima del discepolo e gli rivelano una conoscenza. L’avversario può essere o una persona ( come nel Flauto Magico la Regina della Notte ) o una situazione avversa e diabolica che sfida l’intelligenza dell’eroe o tenta la sua anima, come ne Il caso Maurizius di Jakob Wasserman. Anche il maestro può essere un personaggio in carne ed ossa ( come Sarastro ), un’allusione mitologica ( Venere ne I Lusiadi ), o un semplice aspetto superiore dell’anima del proprio discepolo ( il magico presentimento che guida Etzel Andergast nel romanzo di Wasserman ). Il punto che interessa, il criterio differenziale che ci assicura che siamo in presenza di una narrativa di questo genere, non è il contenuto materiale degli eventi, ma il rapporto tra le forze, insomma: la struttura della trama.

Molte opere della letteratura, del cinema e del teatro si richiamano all’uso dei simboli e di miti “esoterici”, senza farne narrative iniziatiche. Al contrario, i simboli contenuti in una narrativa acquistano una perfetta funzionalità estetica soltanto quando la struttura profonda dell’operaè quella di una narrativa iniziatica; a parte questo, simboli e miti diventano dei meri orpelli pedanti. La struttura totale e i simbolismi particolari devono essere uniti e legati gli uni agli altri in una disposizione organica, riflettendo una delle principali leggi del linguaggio simbolico, che è quello della corrispondenza tra la parte e il tutto, il piccolo e il grande, il micro ed il macrocosmo. Solo artisti molto abili riescono ad ottenere quest’ordine, per questo una buona parte dell’arte “esoterica” in circolazioneè da scartare.

Sia per la struttura sia per i simboli a cui si riferisce, o per la stretta ubbidienza al principio di corrispondenza, Il Silenzio degli Innocenti si rivela una narrativa iniziatica delle più perfette che il cinema ci abbia mai dato. In esso non esiste un unico riferimento simbolico o mitologico che non si inserisca con estrema adeguatezza e affiatamento alla struttura totale dell’opera, facendo riflettere quest’insieme sulla scala dei dettagli; e la struttura globale, a sua volta ha tutti gli elementi richiesti: il maestro, il discepolo, l’avversario diabolico, le peripezie rivelatrici e purificatrici.

In questo modo,è alquanto naturale che si trovi tra Clarice e Crawford, il rapporto Anima-Spirito, che Crawford sia in apparenza inattivo e in fondo attivo, che Clarice sia fedele all’intuito di Crawford anche quando apparentemente gli disubbidisce, e che Crawford, infine, commetta uno sbaglio nel momento in cui quest’errore sia già miracolosamente corretto dalla Provvidenza. L’anima, nella narrativa iniziatica, è passiva dinanzi allo Spirito, ma attiva dinanzi al mondo; essa lotta, ma con lo scopo di rimanere fedele allo Spirito in un mondo laddove le avversità, tentazioni ed inganni minacciano di trascinarla lontano dalla sua vera vocazione.

Che Jack Crawford, nel film, sia maestro o guru di Clarice, è fuori dubbio. Uno dei colleghi di lei lo cita letteralmente così ( “il tuo guru, al telefono” ). Sarà Lecter, poi, il guru di Buffalo Bill, l’imitazione diabolica dello Spirito che con tanta frequenza sorge anche nelle narrative iniziatiche? Lo vedremo in seguito. Per ora, ciò che è interessante notare è che Crawford, nelle funzioni di guru, mantiene un ruolo discreto di secondo piano, lontano dal centro dell’azione fisica ( salvo che per un errore ), e che, alla fine, si ritira modestamente, lasciando alla discepola gli onori della festa. Così come il Sarastro di Mozart, che, alla fine de Il Flauto Magico, dopo aver articolato e diretto da lontano la lotta di Tamino per liberare Pamina, si dissolve in un alone di luce, lasciando ai discepoli il gaudio della vittoria. È anche topos, uno schema ripetibile. Ma come funziona!

Rorty and the animals

a chapter from The Collective Imbecile by Olavo de Carvalho

“Error speaks with a double voice:one which proclaims the false and another one which denies it. It is a dispute between yes and no, which is called contradiction… Error is not condemned by the mouth of the judge, but ex ore suo” – Benedetto Croce.

“Philosophy originated in the attempt to escape to a world where nothing would ever change. Plato, founder of this area of culture that today we call ‘philosophy’, supposed that the difference between past and future would be minimal.”

That is the beginning of a whole-page article published by Mr. Richard Rorty in the Brazilian newspaper Folha de São Pauloon March 3rd, 1996. When I started working in journalism thirty years ago, a paragraph like that would be unmercifully deleted by the copy desk, who might even leave a brief and not very polite note to its author, more or less in the following terms: “But how, wise guy, how would Plato wish so anxiously to run away to a world of stability without change, if in this very world he already didn’t see great difference between the past and the future?” Nowadays blatant rubbish is published as a high manifestation of philosophic thought, and nobody from the copy desk comes forward to say that it is not acceptable, not even as an attempt at journalism.

Besides opening his article with evident nonsense, Mr. Rorty still intends to use such nonsense as the basis for conclusions which violate the most elementary historical truth. For he proceeds: “It was only when they started taking history and time seriously that philosophers replaced their former desire to know another world with hopes for the future of this world. The attempt to take time seriously started with Hegel.”

To begin with, it is well known that Plato, as all Greeks, did see much difference between past and future. If the fact of change itself did not seem to be worth of attention to him, he would not have strived to find an unchangeable pattern behind the transitoriness of things. Second, the concern with “the future of this world” was one of the main concerns of the Platonic endeavor, which was rahter the work of a social and political reformer than that of a pure theoretical contemplator.

Third, to date from Hegel the beginning of the concern with History and time is to skip over two millenia of Christianity, a religion which differentiated itself from the Greek world view exactly for its emphasis on the temporal and historic character of human life, what is already very clear in St. Augustine.

Fourth. Why assume there is a contradiction between the concern with History and the will for eternity, when it is exactly the indissoluble union of these two issues that constitutes the basic inspiration for Hegel himself?

Fifth. When Mr. Rorty interprets the will for eternity as an “evasion” or a “flight”, he is just playing upon words and his pun can easily be undone. The impulse to revolutionize the world, to accelerate historical change, with the same verisimilitude, can also be interpreted as a hubris, an alienating agitation, an escape valve in the presence of permanent and inevitable realities, such as death, frailness, ignorance of our ultimate fate, etc. These pejorative interpretations have only a rethorical value, if that much. Taking them for granted and presenting them as unquestionable is not honest at all.

Based on all these premises, Mr. Rorty finishes the overture of his article with the assertion that the joint influence of Hegel and Darwin distanced philosophy from the question `What are we` and turned it into `What can we become´. This rather pompous historical generalization omits from the reader the information that for Hegel both questions were exactly the same (Wesen ist was gewesen ist). Thereby, far from distancing himself from Greek thought, the philosopher from Jena was just providing a logical development to the Aristotelian doctrine of entelechy, according to which essence is not the static form of a being in a given moment in time, but the goal implicit in its development. Furthermore, it omitts the information that Darwin, on his turn, never said a word about ‘What are we’ nor about ‘What can we become’, but was only interested in ‘What we were’. Rorty therefore mistakes the theory of evolution for the evolutionist ideology, which is Spencer’s work and not Darwin’s.

There are so many implied absurdities in a single paragraph that perhaps it is the compressive strength of falsity being rapidly injected in his brains what makes the reader dizzy, incapable of realizing that he is in front of a cheap fraud, disguised as philosophy as a result of pure marketing.

But I do not believe that Mr. Rorty writes this way for mere incompetence. He knows that he lies – and the secret of the awe he arises in hordes of pedantic youngsters consists precisely in the fact that they envy the power of lying well, for they disbelieve in all truth. There are many who dream about being Richard Rorty when they grow up.

But do you really want to know who this fellow is? Do you wish to get an idea of how ridiculous it is to honor him as a great philosopher? Going a bit further than what he said in Folha de São Paulo, let us then follow this brief examination of his more general conceptions.

“Language is not an image of what is real”, assures us Mr. Rorty, pragmatistic and anti-Platonic philosopher. Should we interpret this sentence in the sense that Mr. Rorty calls “Platonic”, that is, as a denial of an attribute to a substance? It would be contradictory: a language that is not an image of what is real cannot give us a real image of its relations with what is real. So the sentence must be interpreted in the pragmatistic sense: it says nothing about what language is, but only highlights the intention of using it in a certain way. The main thesis of Mr. Rorty’s thought is a statement of intention. “Language is not an image of what is real” means exactly this and nothing else: “I, Richard Rorty, am firmly decided not to use language as an image of what is real”. It is an “irrefutable” thesis, as it is not possible to invalidate logically an expression of will. Therefore, there is nothing open for debate: within the limits of decency and of the Penal Code, Mr. Rorty has the right to use language as he wishes.

The problem comes up when he begins to try to induce us to use language exactly as he does. He says that language is not a representation of reality, but rather a set of tools invented by man to fulfill his wishes. But it is a false alternative. A man may well wish to use this tool to represent reality. It seems that this was exactly what Plato wished. But Mr. Rorty denies that men may have any other wishes rather than seeking pleasure and fleeing pain. That some men do say that they wish something else must be very painful to him. If it were not, there would be no valid pragmatistic explanation for the effort he makes to switch the tone of the conversation. Facing the impossibility of denying that those people do exist, the pragmatist may perhaps say that those who seek to represent reality are moved by the wish to flee pain as much as those who prefer to make up fantasies. But this objection will only come to prove, precisely, that we are not dealing with things that exclude each other. The Rortyan alternative is false in its own terms.

Confronting this painful realization, Mr. Rorty alleges his philosophy consists in introducing a new vocabulary, one in which all distinctions between absolute and relative, appearance and reality, natural and artificial, true and false will be abolished. He recognizes he does not have a single argument to offer as a defense of such proposal. As it “cannot be expressed in Platonic terminology”, it is above, or below, the possibility of being proved or refuted. And he concludes on behalf of all pragmatists: – “That is why our efforts at persuading assume the form of a gradual inculcation of new ways of speaking”. Mr. Rorty, therefore, does not intend to convince us of the truthfulness of his thesis: he only intends to “gradually inculcate us” with his way of speaking. Once it is adopted, we will gradually forget to ask if what we speak is true or false. But gradually inculcating others with a linguistic habit, while also placing it beyond the reach of all rational mediation, is sheer psychological manipulation. We leave therefore the ground of philosophical discussion – that rortyism refuses as “Platonic” – to enter the subtle ground of the imposition of a will by the repetition of slogans and by change in vocabulary. That is what George Orwell called Newspeak in his 1984.

This is perhaps the deep and secret reason why – after having declared that men are but pleasure-seeking beasts and after having reduced language to an instrument that stronger beasts use to dominate weaker beasts – Mr. Rorty can still proclaim that “we, the pragmatists, do not behave as animals”, when his discourse seemed to indicate precisely the opposite. Actually, they are really animal trainers. A horse-trainer does not argue with horses, he just uses psychological influence to “gradually inculcate” them with the desired habits.

Like all animal trainers, pragmatists are moved by pious intentions: “What matters to us is inventing means to diminish human suffering”. It is for that noble purpose that Mr. Rorty proposes to abolish the oppositions between true and false, real and apparent, absolute and relative, etc., which make the philosophy students suffer so much, and suggests the universal adoption of the Newspeak. Once adopted this proposal, philosophical debates will not anymore be an uncomfortable clash of arguments and proofs like they used to be, but rather an effort to make the gradual inculcation of new habits in the mind of the audience ever more painless and pleasurable. The new theories will not look for help in the heavy weaponry of logic, but in the delicate tools of marketing, with free samples being given away to newcomers and smiley Playboy bunnies adorning the covers of academic dissertations.

But the decisive contribution of Mr. Rorty to the relief of human suffering is the combat he wages against the idea that life may have a meaning. It is understandable that Mr. Rorty must feel pretty bad in a universe that makes sense – the odd man out, exactly the way a non-pragmatist would feel in a world devoid of any meaning. Yet, Mr. Rorty does not see the least advantage in arguing with those who do not feel as he does. The controversy between the existence and inexistence of an immanent meaning in the cosmos, he says, “is too radical to be able to be judged from a neutral viewpoint.” There is no way to argue: all a man can do is express his will. So again Mr. Rorty’s thesis is a declaration of intention: he, Richard Rorty, will do everything he can so that life will not have any meaning whatsoever. And he does that with extreme competence and dedication. There are those who think that the lack of meaning in life is what makes human beings unhappy1, But Mr. Rorty does not care at all. He supports democratic pluralism, the free expression of all points of view. But the confrontation of points of view, as it cannot be settled by any intellectually valid means, becomes just a competition between wills, one whose outcome will be determined by the pure manipulating ability of the winning party

Those who know Mr. Rorty personally assure us that he is a very nice guy. I believe them. But I doubt he wags his tail. After all, he is not the animal in the story2.

Footnotes

  1. Viktor Frankl, for example, the not sufficiently praised Jewish psychiatrist who, in the hell of concentration camps, discovered that a meaning for life is more necessary to man than freedom itself. Frankl told an American audience: “It was not only a handful of ministries in Berlin that invented the gas chambers of Maidanek, Auschwitz, Treblinka, they were prepared in the offices and classrooms of nihilistic scientists and philosophers, among which there were and there are some Nobel-laureate Anglo-Saxon thinkers. If human life is nothing more than an insignificant accidental product of some protein molecules, it does not matter that a psychopath be eliminated as useless and that many other inferior people share his fate: all this is but logic and consequent reasoning” (Viktor Frankl, Man’s Search for Meaning). Back
  2. While reviewing the proofs of this chapter, it occurs to me to remind the reader that a proposal such as Mr. Rorty’s contains in itself, along with the refusal of rational proof, a whole army of antibodies against any attempt to refute it in the serenity of an academic discussion. A “gradual inculcation” never clashes directly with arguments, but takes advantage of the moments when its interlocutor is distracted to surreptitiously induce him to change his state of mind. Its modus argumentandi is not the philosopher’s, nor even the rhetorician’s, but that of the neuro-linguistic programmer. It works beneath the threshold of conscience, after having induced its victim to relax its defenses through mild conversation. Against this kind of actuation the only possible defense is to confront the seducer in the ground he has chosen, i.e., that of psychological action. Therefore, it is not a question of arguing, but of unmasking, just like in psychoanalysis. During Mr. Rorty’s visit to Brazil, I was dumbfounded by the incapacity of his audience to notice the difference between argumentation and seduction. If Mr. Rorty himself admits that there is no use in arguing, what could his apparent arguments be if not a diversion, a trompe l’oeil to keep the conscious attention busy while –away from all critical surveillance – the gradual-inculcator discreetly manipulates the bottom of the soul of the distracted interlocutor? But what silly girl would be foolish enough to try to get rid of a seducer by using polite requests that would only prolong the conversation? In order to expel the seducer it is necessary to deny him any hint of nicety right away and for good. Nowadays there are many currents of opinion that prefer psychological influence to logic reasoning. They do not try to win our agreement, but rather to monopolize our attention. By prolonging a conversation that they themselves recognize is not able to reach any intellectually valid results, they gradually surround us with their atmosphere. They do in such a way that, even if we never explicitly agreed with them, suddenly we are speaking their language, thinking according to their categories, judging according to their values, acting according to their rules. That is how they win our most complete obedience in spite of our superficial disagreement. There is no way to confront them except for open manifestations of antipathy in order to make them understand that what separates us from them is not mere intellectual disagreement, but also a categorical moral rejection. In short: we don’t like their conversation. The tone of this book has therefore a prophylactic sense. Back

Kant e o primado do problema crítico

Olavo de Carvalho

Seminário de Filosofia, fevereiro de 1996

Kant e o primado do problema crítico1

 

Se o primado da dúvida metódica é apenas o primado de um equívoco verbal, então fica sob suspeita, igualmente, o primado kantiano do problema crítico. Pois, se o conhecimento humano deve prestar reverência preliminar ante a consciência de seus limites, por que não deveria também submeter-se à exigência de uma justificação preliminar a pretensão de conhecer esses limites?
A motivação imediata que levou Kant a investigar os limites do conhecimento humano foi o estado de profunda irritação em que o deixaram os relatos de Emmanuel Swedenborg sobre visões do céu e do inferno. Os únicos trechos da obra kantiana onde sentimos que a habitual frieza analítica do autor cede lugar a um tom de sarcasmo e de polêmica apaixonada, são aqueles em que Kant procura rebaixar os depoimentos do místico sueco a alucinações de uma mentalidade doente. O escrito Sonhos de um visionário marca justamente a passagem da fase pré-crítica à maturidade do pensamento kantiano. É manifesto que a filosofia crítica tem menos o objetivo de dar um fundamento ao conhecimento científico do que simplesmente de explicitar os fundamentos dados por pressupostos, ao mesmo tempo que nega qualquer fundamento científico aos conhecimentos de ordem mística e metafísica, reduzindo portanto a religião a um conjunto de mandamentos morais sem qualquer respaldo cognitivo.
Mas o curioso é que o filósofo crítico, tão cioso de não se deixar enganar por pressupostos dogmáticos, dá por pressuposta não somente a validade da ciência física, como também a aptidão da razão para conhecer seus próprios limites. Para além do campo dos juízos a priori e da experiência sensível, estende-se apenas, segundo ele, o domínio do incognoscível: pensável, admite Kant, mas incognoscível. No entanto, como se poderia determinar os limites do cognoscível sem algo conhecer do suposto incognoscível cuja borda externa coincide precisamente com esses limites? Se a razão conhece os limites do sensível e, ao mesmo tempo, estatui os seus próprios limites, como poderia ela determinar, igualmente, os limites do terceiro campo, especificamente diferente, que é o da experiência racionalizada, ou ciência, se, conforme diz o próprio Kant, é só a imaginação que conecta o racional e o sensível? Para ser coerente, Kant deveria ter dito que não há limites para a ciência, exceto os da imaginação. Pois, na medida em que opere balizada pela razão e pela experiência sensível, a imaginação, na perspectiva kantiana, não nos dará somente pensamento, mas conhecimento, de pleno direito. E, se é assim, por que rejeitar dogmaticamente a possibilidade de, partindo do sensível, escalar imaginariamente os graus do supra-sensível? Nada, no kantismo, prova que isto seja impossível ou sequer difícil.
Os limites de uma determinada capacidade só podem ser de duas ordens: intrínsecos e extrínsecos. Os limites intrínsecos são aqueles que podem ser conhecidos a priori e analiticamente, por dedução a partir do seu conceito. Ora, segundo Kant, nenhuma dedução a priori pode emigrar, sem mais, para o domínio dos fatos, de vez que o conhecimento deste domínio só tem validade quando é indutivo e fundado na experiência. Logo, os limites intrínsecos do conhecimento humano, caso conhecidos, seriam puramente formais e não se aplicariam ao conhecimento de nenhum objeto real e determinado. Seriam, por assim dizer, limites vazios, hipotéticos, que na prática não limitariam nada.
Quanto aos limites extrínsecos, só podem ser determinados indutivamente, a partir dos vários conhecimentos efetivos concernentes às várias espécies de objetos; e pelo fato mesmo de serem extrínsecos não poderiam jamais ser necessários e incondicionais, mas somente acidentais e contingentes.
Procurando determinar a priori os limites reais do conhecimento humano, o que é impossível segundo o próprio kantismo, ou provar por indução de fatos contingentes que esses limites são necessários e incondicionais, a proposta da filosofia crítica é, para dizer o mínimo, uma falácia em toda a linha.
O primeiro e o mais básico dos limites assinalados por Kant é que o campo da experiência está circunscrito pelas duas formas a priori da sensibilidade, o espaço e o tempo. Mas aquilo que está num lugar determinado está também, a fortiori, no infinito supra-espacial; e aquilo que ocorre num instante determinado acontece também, a fortiori, dentro da eternidade — duas necessidades a priori das mais óbvias que, por si, dariam por terra com os famosos limites que a filosofia crítica procurava estabelecer2.
Mais falaciosa ainda é a refutação kantiana do argumento de Sto. Anselmo. Sto. Anselmo diz que a existência de Deus é auto-evidente por mera análise, de vez que o Ser infinito e necessário não poderia ser privado da existência, sendo toda privação uma limitação, contraditória portanto com a infinitude, e a possibilidade mesma de uma limitação sendo uma contingência, contraditória com a necessidade. Kant objeta que os juízos analíticos têm validade puramente racional e não se aplicam aos seres do domínio real, que só podem ser conhecidos por experiência: existir é existir “fora” do pensamento, e portanto a existência nunca pode ser deduzida do mero conceito.
Kant dá por pressuposto, nessa objeção, que nossa mente pode criar como mera hipótese o conceito de um ser absolutamente necessário, ou seja, que este conceito pode ser um mero “conteúdo” do pensamento. Ou seja: o conceito do ser necessário seria apenas hipoteticamente necessário. Só que, para esse conceito ser apenas e exclusivamente uma criação da nossa mente, sem qualquer realidade objetiva, ele teria de ser necessariamente hipotético, ou seja, teria de excluir totalmente a possibilidade de ser mais que mera hipótese. Ora, esta exclusão é autocontraditória. Nenhuma lógica do mundo pode determinar que uma necessidade hipotética seja necessariamente hipotética, pois isto seria o mesmo que negar-lhe, de antemão, todo caráter necessário, afirmado ao mesmo tempo no seu mero conceito. Podemos, é claro, imaginar uma necessidade falsa, mas ao dizermos que é falsa dizemos que não é necessidade de maneira alguma. Uma necessidade hipotética ou é uma necessidade ainda não provada, mas que, se provada, se mostrará necessária, ou é uma necessidade falsa: o que é logicamente impossível é conceber que uma necessidade hipotética seja hipotética necessariamente, que não possa ser verdadeira de maneira alguma, pois isto seria negar sua condição de hipótese e colocar, em seu lugar, o juízo categórico que afirma sua falsidade. O Ser infinito e necessário não pode, portanto, ser concebido como um mero “conteúdo da nossa mente”. Na verdade, concebê-lo assim, dando conteúdo lógico positivo a um conceito autocontraditório, é muito mais difícil do que conhecer algo, positivamente, sobre o Ser absoluto. É mais fácil conhecer Deus do que o “necessário necessariamente hipotético”.
Por outro lado, se a existência real do ser necessário não pode ser deduzida analiticamente do conceito da sua necessidade, se a necessidade exclui a contingência (e portanto a possibilidade de inexistir) e se o real fenomênico está forçosamente submetido às categorias lógicas, então é claro que, para falar na terminologia kantiana, o argumento ontológico é um juízo sintético a priori, e não um juízo puramente analítico: a existência real do ser necessário não está contida em sua mera definição, mas, a priori, sabemos que é exigida por ela, a título de propriedade, exatamente como acontece nos juízos geométricos mencionados por Kant.
Mais que logicamente certo, o argumento ontológico é auto-evidente. Denomino auto-evidente o juízo que não pode ter uma contraditória unívoca, ou seja, cuja contraditória não é sequer formulável sem o vício redibitório da ambigüidade. Que eu saiba, esta característica dos juízos auto-evidentes não tinha sido ressaltada até agora3. No caso, qual a contraditória do juízo “O ser necessário existe necessariamente”? É “O ser necessário inexiste necessariamente” ou “A existência do ser necessário não é necessária”? Impossível decidir. A contraditória do argumento de Sto. Anselmo é informulável. Rejeitar portanto esse argumento é abdicar do senso mesmo da unidade do discurso, é cair na linguagem dupla que terminará por nos levar aonde chegou Kant.
Porém a raiz de todas essas absurdidades está precisamente na fé dogmática que Kant, imitando Descartes, coloca no poder humano de duvidar. Pois como podemos, de fato, duvidar de nossa possibilidade de conhecer o absoluto? Se nada, radicalmente nada sabemos do absoluto, não podemos sequer formular nossa dúvida quanto à possibilidade de conhecê-lo. Daí a necessidade de ter um ponto de apoio no absoluto para formular a dúvida; mas como, ao mesmo tempo, Kant já tomou essa dúvida como um ponto de partida infalível e não pode abdicar dela de maneira alguma, só lhe resta procurar esse ponto de apoio nos limites mesmos do conhecimento, elevados assim a absolutos e incondicionados, por um giro lógico dos mais singulares. Assim, nada podemos saber do absoluto, exceto que ele está “para lá” dos limites do nosso conhecimento, limites estes que, não sendo determinados pelo absoluto (do qual nada sabemos) nem sendo realidades contingentes e revogáveis (de vez que são provados por mera análise, sendo por isto válidos a priori), passam eles mesmos a ser o próprio absoluto! Pois, se o pensamento nada pode deduzir a respeito do que está fora dele, como pode então conhecer os seus “limites”, a não ser que estes sejam necessários a priori? Sendo necessários a priori, são incondicionais; mas são também totais, abarcando o conhecimento humano como um todo e não somente em algumas partes e aspectos: e o todo incondicional é evidentemente absoluto. Logo, a prova de que não podemos conhecer o absoluto sustenta-se no conhecimento que temos do absoluto, com o nome mudado para “limites do conhecimento”. Se isto não fosse atentar iconoclasticamente contra um ídolo da modernidade, eu diria que o único comentário que merece essa tese da filosofia kantiana é que se trata de coisa pueril.
Do ponto de vista teológico, a entronização dos limites do conhecimento como o novo absoluto em lugar do velho Deus tem uma conseqüência das mais nítidas: o absoluto passa a ser definido como o não-humano, o humano como não-absoluto. Este abismo é, por sua vez, absoluto: Deus é tudo quanto está fora dos limites do humano, humano é tudo o que está fora e aquém do reino divino. Ou seja: a exclusão do humano do reino divino torna-se ela mesma um absoluto. Que Kant pretenda em seguida resgatar à força de razão prática e fé pietista a ligação entre homem e Deus, após ter demonstrado que ela é absolutamente impossível, só mostra que ele não tinha muita consciência do que fazia. Pois, se a exclusão do homem do reino divino é uma necessidade absoluta, nem mesmo a graça de um Deus onipotente poderia revogá-la.
Na verdade, não pode haver limites necessários ao conhecimento humano, sendo a condição humana definida precisamente pela contingência e pela liberdade. Todos os limites ao conhecimento humano têm de ser contingentes, e é precisamente isto o que possibilita, de um lado, as diferenças de capacidade cognitiva entre indivíduos e, de outro, o progresso do conhecimento. A tentativa de fundamentar a priori os limites do conhecimento humano é autocontraditória e absurda na base, reduzindo-se portanto a filosofia crítica a uma pretensão insensata, ao “sonho de um visionário”, que imagina poder puxar-se pelos cabelos para fora da água como o Barão de Münchausen e contemplar de dentro os seus próprios limites externos, como aquelas escadas de Escher cujo topo emenda com o primeiro degrau.
Mais ingênua, portanto, do que a confiança dogmática do racionalismo clássico no poder cognoscitivo da razão, mais visionária que a pretensão dos místicos a um conhecimento experimental de Deus, é a confiança no poder humano de por em dúvida aqueles princípios que fundam a possibilidade mesma da dúvida. Mais ingênuo que qualquer dogmatismo é o princípio mesmo da filosofia crítica, que pretende estatuir dedutivamente limites contingentes e indutivamente limites necessários. Mais ingênuos do que nossos antepassados, que acreditavam na revelação e na razão, somos nós, que acreditamos em Descartes e em Kant, supondo que a negatividade do seu ponto de partida seja prova de modéstia metodológica, quando ela oculta, na verdade, a mais sobre-humana das pretensões: a pretensão de estabelecer limites absolutos ao conhecimento humano. Pretensão superior à do próprio Deus, que não cercou de grades o fruto proibido, mas o deixou ao alcance da curiosidade de Eva.

Apêndice

Certas filosofias ignoram suas implicações práticas mais óbvias e por isto desencadeiam efeitos históricos inversos aos pretendidos pelo seus autores, os quais, se os vissem, não poderiam senão tentar jogar sobre a incompreensão de devotos discípulos a culpa que legitimamente deve ser imputada à sua própria e indesculpável imprevidência.
Kant procura subjugar a filosofia à  cristã, obtendo como resultado descristianizar a filosofia e tirar o vigor filosófico do cristianismo. É, tal como Descartes, um carola que fortalece o ateísmo imaginando defender a religião.
Ele realiza uma torção do olhar filosófico, desviando-o do objeto dado para as estruturas cognitivas do sujeito. Estas passam a ser não somente o único território seguro, mas o único objeto digno de interesse.
Paralelamente, toda universalidade deixa de ser universalidade objetiva, para se tornar mera uniformidade das estruturas cognitivas da espécie humana, isto é, subjetividade coletiva ou, como veio a ser chamada, intersubjetividade.
As categorias já não sendo modos de existência do ser, mas modos de cognição nossos, qualquer discurso que façamos já não versa senão sobre nós mesmos, e o objeto permanece eternamente separado de nós na redoma da incognoscível “coisa-em-si”. Não há saída para fora da prisão do mental senão pelo imperativo categórico que nos ordena crer em Deus; mas, como temos de crer n’Ele sem podermos jamais saber se Ele existe, toda tentativa de fundamentar racionalmente a fé não passará jamais de um jogo de palavras. Restaria explicar enfim por que esse Deus, no qual temos de crer e do qual temos de julgar que é bom por imperativo categórico, nos impõe categoricamente uma determinada fé e o uso da razão, ao mesmo tempo que nos proíbe usar a razão para provar a veracidade da fé. A filosofia de Kant é uma cisão esquizofrênica: reúne lado a lado, sem intercomunicação possível, um fideísmo obediencialista e um cientificismo pré-positivista. Ora, entre uma religião irracional e autoritária e a negação de todo conhecimento supra-sensível, qualquer pessoa sensata optaria por esta última, e foi precisamente o que aconteceu: Kant gerou o positivismo, que gerou o materialismo generalizado. Só um ingênuo não preveria esta conseqüência, e foi precisamente por prevê-la que os filósofos escolásticos insistiram em conciliar razão e fé, em vez de justapô-las mecanicamente e sem ligação interna como faz Kant. Kant representa um retrocesso da consciência cristã, que por meio dele recai em dilacerantes contradições já superadas pela escolástica — uma escolástica que Kant desconhecia quase por completo, já que sua única fonte sobre o assunto eram os manuais de Wolff.
Para piorar ainda mais as coisas, as formas a priori da subjetividade, que a Crítica descreve, são universais e necessárias, isto é, abrangem todo e qualquer sujeito cognoscente possível. Não há como excluir disto o próprio Deus, se é que Deus pensa e conhece humanamente, o que a Igreja diz ser justamente o negócio da Segunda Pessoa da Trindade. E aí temos a suprema extravagância do kantismo: nada podendo saber de Deus, ignoramos se Ele pensa, mas, ao mesmo tempo, já sabemos tudo a respeito de como Ele pensa — uma conclusão que Kant não afirma, porque nem sequer a percebe, mas que está implicada logicamente, e sem escapatória, em tudo quanto ele afirma. Em verdade vos digo: parece brincadeira.
Um kantiano roxo pode objetar que conhecer o pensamento humano de Jesus não é conhecer absolutamente nada de Seu pensamento divino — objeção desastrosa, que resultaria em cavar dentro do próprio Cristo o abismo entre homem e Deus que Kant já cavou na alma de todos nós, abismo sobre o qual o Cristo é precisamente a ponte. Algo me diz que, quando Jesus advertiu “Quem não junta comigo, separa”, o piedoso sábio trapalhão de Koenigsberg talvez não estivesse de todo ausente de Suas cogitações.

NOTAS

  1. Aulas do Seminário de Filosofia, fevereiro de 1996.
  2. Para completar, a experiência sensível não é só delimitada pelo espaço e pelo tempo, mas também pela quantidade. Mas, como demonstrou Benedetto Croce (Estetica come Szienza dell’Espressione e Linguistica Generale, Bari, Laterza, 11ª ed., 1965, I:I) podemos perceber espaço independentemente de tempo, tempo independentemente de espaço e quantidade independentemente de uma e outra coisa. Ademais, não poderíamos perceber quantidade sem que tivéssemos também, como bem viu Croce, a percepção da individualidade singular, na sua inespacialidade e intemporalidade. Assim, portanto, não há motivo para que o ser necessário não possa ser percebido com os sentidos, sendo, por definição, impossível que o ser necessário estivesse forçosamente excluído de qualquer possibilidade de manifestação fenomênica.
  3. Explico mais detalhadamente esse conceito no meu Breve Tratado de Metafísica Dogmática, Rio, Seminário de Filosofia, 1996 (apostila).