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Marxismo come cultura

 Sob este título geral, o site italiano http://www.stranocristiano.it/ publicou a tradução dos artigos de Olavo de Carvalho “A natureza do marxismo” e “Diferenças específicas”, qualificando-os de “brilhante leitura do marxismo”.

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1. La natura del marxismo

Olavo de Carvalho

Jornal da Tarde , 18 dec. 2003

Testo originale in portoghese: http://www.olavodecarvalho.org/semana/031218jt.htm

Investigando per decenni la natura del marxismo, sono arrivato alla conclusione che esso non è solo una teoria, una “ideologia” o un movimento politico. Esso è una “cultura” in senso antropologico, un intero universo di credenze, simboli, valori, istituzioni, poteri formali e informali, regole di condotta, modelli di discorso, abitudini coscienti ed inconscienti, etc. Per questa ragione esso è autofondante e autoreferente, per questa ragione esso non può comprendere niente se non nei propri termini, non può ammettere una realtà al di là del suo proprio orizzonte né un criterio di verità al di sopra dei propri scopi autoproclamati. Come ogni cultura, esso possiede nella sua propria sussistenza un valore che deve essere difeso ad ogni costo, ben oltre delle esigenze della verità o della moralità, poiché esso costituisce la totalità della quale la verità e la moralità sono elementi parziali, motivo per cui il tentativo di affrontarlo in nome della verità e della moralità suona alle sue orecchie come una intollerabile e assurda rivolta delle parti contro il tutto, una insensata violazione della gerarchia ontologica.

La costituzione della propria identità include dispositivi di autodifesa che impongono severi limiti alla critica razionale, facendo appello, quando viene minacciata realmente o immaginariamente, a scuse mitologiche, all’auto-inganno collettivo, alla menzogna pura e semplice, a meccanismi di esclusione e liquidazione degli inconvenienti e al rito sacrificale del capro espiatorio.

Si illudono coloro che credono possibile “contestare” il marxismo attraverso un attacco ben fondato ai suoi “principi”. Per il marxista, l’unità e la preservazione della sua cultura stanno al di sopra qualsiasi considerazione di ordine intellettuale o cognitiva, e per questo i “principi” espressi dalla teoria non sono proprio il fondamento della cultura marxista: essi sono solo la traduzione verbale, imperfetta e provvisoria, di un fondamento molto più profondo che non è di ordine cognitivo bensì esistenziale, e che si identifica con la propria sacralità della cultura che deve restare intoccabile. Tale fondamento può essere “sentito” e “vissuto” dai membri della cultura per mezzo della partecipazione all’atmosfera collettiva, nelle imprese comuni, nella memoria delle glorie passate e nella speranza della vittoria futura, ma non può essere ricondotto a nessuna formulazione verbale in particolare, per quanto elaborata e prestigiosa possa essere.

Per questa ragione è possibile essere marxista senza accettare nessuna della formulazioni anteriori del marxismo, compreso lo stesso Marx. Per questo è possibile partecipare del movimento marxista senza conoscere nulla della sua teoria, così come è possibile rifiutare criticamente la teoria senza cessare per questo di collaborare con il movimento marxista nella pratica. L’attacco della critica contro le sue formulazioni teoriche ne lascia intatto il fondamento esistenziale, il quale attaccato rifluisce verso la fortezza inespugnabile delle certezze mute o semplicemente produce nuove formulazioni sostitutive che, anche se fossero incoerenti con le prime, non proverebbero, al marxista, altro che l’infinita ricchezza del fondamento indicibile, capace di conservare una sua identità e forza sotto una varietà di formulazioni contraddittorie che esso trascende infinitamente.

Il marxismo non ha “principi”, solo impressioni indicibili in costante metamorfosi. Come la realtà della vita umana non può essere esperita se non come un nodo di tensioni che si modificano nel tempo senza mai poter essere risolte, le contraddizioni tra le varie formulazioni del marxismo faranno di esso una  perfetta imitazione microcosmica dell’esistenza reale, dentro la quale il marxista può passare una vita intera immune dalle tensioni che sono fuori del sistema, con il vantaggio addizionale che quelle di dentro sono in qualche modo “sotto controllo”, attenuate dalla solidarietà interna del movimento e dalle esperienze condivise.

 Se il marxismo è una “Seconda Realtà” , nell’accezione di Robert Musil e Eric Voegelin, esso lo è non solo nel senso cognitivo delle rappresentazioni ideali posticce, ma nel senso esistenziale della falsificazione attiva, pratica, dell’esperienza della vita. Perciò qualsiasi popolo sottomesso all’influenza dominante del marxismo passa a vivere in uno spazio mentale chiuso, estraneo alla realtà del mondo esterno.

In un prossimo articolo mostrerò con più dettagli queste spiegazioni, riassunto di quanto ho offerto in un mio recente dibattito con un professore della Facoltà di Diritto della USP. Delle mie spiegazioni il tale professore rispose che io pensavo così a causa di “gravi problemi emozionali” — senza percepire  che, con questo, egli dava la migliore esemplificazione alla mia teoria.

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2. Differenze specifiche

Olavo de Carvalho

Jornal da Tarde, 8 jan. 2004

Testo originale in portoghese:
http://www.olavodecarvalho.org/semana/040108jt.htm

Caratterizzato il marxismo come cultura, è necessario adesso dare più precisione alla diagnosi per mezzo di alcune differenze specifiche. Il marxismo non è un processo culturale autonomo, ma una trasmutazione avvenuta in seno al movimento rivoluzionario mondiale, che a quel tempo già aveva una tradizione centenaria e una identità definita, al punto di essere popolarmente designato dalla semplice espressione “il movimento” o “la causa”, malgrado la coesistenza, in esso, di una infinità di correnti e sottocorrenti in disputa tra loro.

Il Manifesto Comunista del 1848 si presenta come un superamento e assorbimento di tale movimento disordinato, in una totalità superiore. Da quel momento in avanti, le relazioni tra il marxismo e le altre correnti rivoluzionarie furono quelle del padrone con i suoi sottoposti che a suo piacere convoca, dimette, espulsa o chiama indietro.

Fu così che esso poté condannare come rivolta piccolo-borghese le proteste esistenziali di ordine sessuale o impugnare il nazionalismo come il peggiore nemico della rivoluzione proletaria, e subito dopo convocare e l’uno e l’altro perché servissero sotto le sue bandiere. La sua capacità di assorbimento ed espulsione è illimitata, e giacché non deve dare soddisfazione se non all’unica sua priorità, che è la sua propria esistenza ed espansione, ogni considerazione di verità o moralità giura che neppure viene ribassata, pragmaticamente, alla condizione di ancilla revolutionis .

Opportunismo portato alle ultime conseguenze, il suo totale disimpegno con la verità può essere misurato dalla costanza con la quale il movimento comunista annuncia la sua vittoria ormai prossima contro le nazioni capitaliste e, allo stesso tempo, nega perfino la propria esistenza materiale, denunciando come paranoia e “teoria del complotto” ogni tentativo di identificare la sua rete di organizzazioni e i suoi modi di azione. Di fronte a ciò anche la comparazione con le religioni dogmatiche è inadeguata. Nessun fanatismo religioso ha mai prodotto questo tipo di sociopatia di massa.

La differenza fondamentale tra il marxismo e le altre culture è che per quest’ultime il test decisivo è l’adattamento all’ambiente naturale, l’organizzazione dell’economia. Qualsiasi cultura che fallisca in questo punto è destinata a scomparire. Il marxismo, al contrario, il cui completo fallimento economico in tutte le nazioni in cui ha dominato è notorio (basti ricordare che nessuna organizzazione economica è mai riuscita ad uccidere di fame 10 milioni di persone in una sola volta come con il “Grande Balzo in Avanti” dell’agricoltura cinese), sembra trarre da questo risultato i più straordinari vantaggi, crescendo in prestigio e forza politica quanto più diviene fragile e dipendente dall’aiuto dei paesi capitalisti.

La sua incapacità di sfruttare efficacemente un territorio, comparata alla brutale efficienza nello espandersi in territorio altrui, mostra che il marxismo non esiste come cultura in senso pieno, capace di affermare il suo valore contro la resistenza dell’ambiente materiale, bensì solo come sottocultura parassitaria incrostata in una società che esso non creò e con la quale non può competere.

Sottocultura parassitaria della cultura occidentale moderna, il marxismo non è capace di sostituirla, ma è capace di indebolirla e portarla alla morte. Il parassita, però, non può sussistere fuori del corpo che sfrutta, e la debolezza dell’organismo ospitante dà margine all’ascensione di una altra cultura concorrente, quella islamica — questa sì cultura in senso pieno — alla cui lotta anti-occidentale il marxismo finisce per servire di forza ausiliaria in quanto cerca di servirsene per i suoi scopi. L’adesione all’Islam di importanti pensatori marxisti come Roger Garaudy e la “alleanza anti-imperialista” di comunisti e mussulmani sono simboli di un processo molto più complesso di assorbimento del marxismo, che alcuni teorici islamici descrivono così: la lotta per il socialismo è la tappa iniziale e inferiore di un processo rivoluzionario più vasto che aggiungerà alla”liberazione materiale” dei poveri la sua “liberazione spirituale” attraverso la conversione mondiale all’Islam.

Al contempo, i marxisti credono di dirigere il processo e servirsi della ribellione islamica come in altre epoche utilizzarono vari movimenti nazionalisti, soffocandoli in seguito. Se i marxisti saranno le truppe di attacco della rivoluzione islamica, o i mussulmani la punta della lancia del movimento comunista, ecco la questione più importante per chi desiderasse sapere dove andrà il mondo nei prossimi decenni.


[1] Questo titolo è nostro. [NdT]

Les Plus Exclus Des Exclus

 Le silence des morts comme modèle des vivants défendus de parler

International Symposium Forms and Dynamics of Exclusion
UNESCO, Paris, June 22nd-26th 1997

Il faut commencer pour faire rappeler aux Français ici présents une citation de l’éminent médecin Brésilien Vital Brasil, qui à l’occasion de parler pour la première fois à des gens de langue française a dit: “Je vous prie des excuses par quelque dommage que je puisse faire à la grammaire, vu que je parle dans une langue qui n’est pas la mienne et qui, tel que vous en vous rendrez compte dans quelques instants, peut-être n’est pas non plus la vôtre.”

La seule consolation que m’apporte la présente circonstance d’un dialogue pluri-national c’est de m’imaginer que peut-être quelques uns des gens d’Afrique, d’Asie et de l’Amérique qui m’écoutent finiront par croire que je vous parle en Français.

Le sujet que j’entends proposer à vos méditations vous paraîtra peut-être étrange. Dans un colloque dedié aux souffrances des hommes, des femmes, des enfants et des vieillards soumis à d’injustes exclusions et discriminations, il est donné par pressuposé qu’on parle toujours de minories qui protestent de la justesse de leur cause, pour faire valoir leurs droits. Le groupe exclu dont j’entends vous parler, par contre, c’est la large majorité de l’espèce humaine. Ce qui est le pire, il ne se compose que de gens qui ne protestent jamais, qui ne s’expriment jamais que par un silence que nous prennons volontiers pour de l’approbation ou de l’indifférence. J’entends vous parler des morts, des hommes des temps passés. Bien que ce soit vrai qu’ils sont les plus inermes de toutes les créatures, ils n’auraient que faire dans ce colloque si leur exclusion du dialogue humain n’était pas, à mon avis et tel que j’entends vous faire voir si vous me le permettez, le modèle même, l’archétype de toutes les formes modernes d’exclusion et de discrimination.

Il-y-a beaucoup de traits qui marquent notre siècle d’une empreinte qui le singularise entre tous, mais le plus profond c’est sans doute le changement radical de l’atittude des hommes envers le passé. Ce changement-là a été préparé depuis l’avènement de l’historicisme, mais il n’a atteint sa plenitude qu’au XXe. siècle. L’historicisme nous a appris à “relativiser” les idées les ramenant chacune à son “époque”, d’où elles ne pouvaient sortir que dans la condition de témoins d’états d’esprit qui ne reviendraient jamais. Il nous a appris à voir les idées et les croyances des gens de jadis comme des specimens d’une espèce décédée. Il nous à appris à ne chercher plus à être dans le vrai, mais à être “de notre temps”. Avec Karl Marx l’historicisme n´est plus un simple cadre de référence théorique et devient une force agente, qui modèle le monde à son image: l’image d’un fluxe temporel absolutisé, qui porte un dégât à la signification des idées jusqu’à en faire des simples émanations gazeuses du fait accompli. Les opinions et les croyances des hommes d’autrefois, on n’en a plus à discuter, à en juger le vrai ou le faux: on les explique en fonction des états de choses qui n’ont rien à voir avec leur contenu, mais qui sont censées les avoir “produites” du dehors par une sorte de “sympathie” magique entre les structures majeures de la societé, de l’Histoire ou du psychisme, et ce qui chaque homme croit penser librement. On explique des théorèmes de géométrie par la lutte politique, les mètres de la poésie par des interêts de classe. On est bien loin des temps où Saint Thomas pouvait lire les textes d’Aristote tels que s’ils vénaient de parâitre et les discuter face-à-face pour en séparer le vrai et le faux, le meilleur et le pire. On ne pose jamais son regard sur le sujet des écrits anciens: on vise toujours à côté, on ne vise que les causes qui sont censées les avoir produits et “l´explication” qu’on peut en donner. Avec l’avènement de la psychanalyse, ce désir de viser à côté va plus loin encore: devant un homme qui éssaie de nous communiquer les contenus de sa conscience, on ne vise que les contenus de son inconscient qui souvent n’ont rien à voir avec ce qu’il veut nous faire voir. Depuis lors, le progrès des méthodes et des théories — des analyses péjoratives de Nietszche jusqu’au déconstructionisme — n’a fait que nous mener chaque jour plus loin du point focal visé par les hommes dont les actions et les mots nous professons d’étudier et de comprendre.

Le désir de voir les grandes structures et les cycles majeures par dérrière les faits et les hommes singuliers est certes quelque chose de légitime, voire de louable. Mais souvent cette impulsion nous mène à faire des hommes des temps passés des purs objets de notre recherche, en nous faisant oublier qu´ils sont des hommes, c’est à dire, des interlocuteurs légitimes qui ont le droit de nous parler d’égal à égal.

Il n’est pas l’objet de la présente communication de vous décrire ce long processus de transformation de notre image des hommes d’autrefois. Vous la connaîtrez peut-être mieux que moi-même. Ce que j’entends faire c’est de la faire voir en tant que forme d’exclusion — le fait d’une époque qui se croit assez bonne pour savoir des autres beaucoup plus qu’elles n’en savaient elles-mêmes, ainsi que le supérieur connaît l’inférieur mieux que lui-même.

Pour entreprendre cette esquisse de notre image des temps passés sub specie exclusionis, je vais commencer par un survol d’une constante des rélations entre les gens de notre espèce: la reciprocité.

1. RÉPONSE ET EFFET

D’où vient la satisfaction que nous éprouvons lorsqu’une fleur que nous avons plantée éclôt, lorsque le chien que nous appelons par un sifflet vient se coucher à nos pieds? Ne s’agit-il pas de réactions normales et prévisibles au simple déchaînement d’un mécanisme de cause et effet? Pourquoi alors ont-elles plus de signification pour nous que le ronflement de l’automobile lorsque nous faisons marcher son engrenage, que le changement de l´écran de l’ordinateur lorsque nous touchons le mouse? C’est que là, chez elles, nous pouvons entrevoir toute la distance qui sépare un effet d’une réponse. Cette dernière peut toujours être niée, elle peut arriver différente de ce que nous l’attendions et elle est quelque chose de plus précieux que la manifestation de notre simple pouvoir de produire des effets. En tous cas les où elle répond à notre attente, elle nos semble être comme la retribution d’une attention amoureuse. Nous nous apercevons que derrière elle il existe une décision, l’exercice d’une liberté, un consentement qui manifèste une harmonie et une gracieuse compréhension mutuelle entre nous et le monde. À cause de cette même raison, nous sommes plus patients avec le chien désobéissant ou avec la plante qui s’attarde à pousser qu’avec le moteur qui ne marche pas ou avec l´écran d’ordinateur qui “congèle”. Cela provient de la nature même des informations que nous donnent leur refus de nous obéir: l’automobile, l’ordinateur qui ne marchent pas ne nous informent que de leur propre état. Le chien qui se dérobe expresse quelque chose qui est comme son opinion à notre sujet. Il nous juge, tandis que la machine ne juge que soi-même.

Une réaction s’approche d’autant plus d’une réponse et se distingue d’autant plus d’un effet de par sa compléxité, donc la plus grande imprévisibilité du sujet, sa liberté de nous accepter ou de nous refuser.

Donner ou nier des réponses c’est propre de l’être vivant. C’est pourquoi la capacité de prévoir des réponses est considérée une habileté supérieure, et plus proche de l’idéal de la sagesse, que la simple connaissance de rélations de cause-et-effet.

Donc, toute connaissance de l’être humain par l’être humain entraîne toujours, à un certain degré, la possibilité au moins de conjecturer ses réponses, mais aussi l’impossibilité de les prévoir avec une telle exactitude qu’elles aient pour nous une signification inférieure à celle de l’obéissance du chien ou du fonctionnement régulier d’un ustensile électronique. Chez l’être humain, l´imprévisibilité absolue coïncidirait avec la totale manque de connaissance à son sujet, la prévisibilité absolue avec la suppression de son statut humain, avec sa réduction au substratum biologique de son hominité.

C’est parce que les réponses d’un être humain peuvent être variées qu’elles ont à notre avis une signification. C’est parce que cette signification ne peut pas varier au-dehors de la gamme admise par l’acte ou par la parole qui la suscitent qu’elle nous est compréhensible, en principe ou de jure, et c’est le fait de devoir être compréhensible qui nous permet, quand elle ne l’est pas, de la juger absurde.

À cause de toutes ces raisons, on ne peut pas admettre comme douée du sens aucune idée ou aucune croyance à propos de l’être humain qui n’implique pas, à un certain degré, l’intérêt par la réponse qu’il est censé leur offrir. Si j’ai une opinion sur un certain individu, mais il m’est absolument impossible de prévoir ce que, lui, il penserait sur celle-ci, alors elle ne contient effectivement aucune connaissance à propos de lui, elle laisse échapper totalement son objet, elle ne sort pas du cercle d’immanence où je compare les images différentes que j’ai de moi-même les unes avec les autres.

2. RECIPROCITÉ ET BILATERALITÉ ATTRIBUTIVE

Il-y-a donc, dans la connaissance de l’être humain par son prochain, toujours l’admission d’un certain degré de reciprocité, soit positive, soit négative. Je connais un homme dans la mesure où je sais que l’horizon de ce qu’il sait de lui-même est égal, plus grand ou plus petit que celui où je le vois.

Dans aucun cas celà est plus évident que dans la radicale discordance. Savoir que je ne suis pas d´accord avec quelqu’un c’est savoir qu’il n´est pas d´accord avec moi. L’impossibilité de prévoir sa réaction devant mes opinions ce serait le même chose que d´ignorer par complet s’il-y-a entre nous d’entente ou désaccord. Quand on étudie des cultures étrangères, nous savons que certains de leurs coutumes ne nous semblent étranges que dans la mesure où, comme le dit le môt lui-même de coutume, ils ne sont nullement étranges à ceux qui vivent sous leur empire. Aux yeux de ceux-ci, c’est notre réaction de surprise qui semble étrange.

Dans toute rélation personelle, la connaissance que nous jugeons avoir de nos prochains n’est jamais pertinente si elle ne porte en soi des informations correctes concernant ce qu’ils pensent de nous. L’image du prochain est pour ainsi dire bidiréctionnelle, et il n’est que cette vision en arrière qui nous donne le centre de perspective de cette image-là. Sans un tel feedback, nous resterions demi-aveugles et désorientés comme une flèche qui vole dans les ombres, ayant oublié son cible. C’est à peu près la situation où je me trouve, en parlant dans une langue que je suppose être le Français sans savoir si elle l’est aussi pour ceux qui m’écoutent.

La même chose se passe dans la politique: il ne nous est possible de comprendre une idéologie, un parti, une faction quelconque, que si nous avons une idée de ce que nos interpretations signifient de leur point de vue.

En reduisant le prochain à la condition d’un objet inerme, en lui dépossedant de sa capacité de nous juger e de nous ébranler, c’est à dire, en lui ôtant sa force d’être dangereux, nous n’avons plus de trait qu’à des marionettes qui se meuvent et parlent à notre bon gré.

Jamais dans la connaissance de l’homme par l’homme la vertu d’objectivité correspond à un déplacement de l’observateur vers des hauteurs divines où il soit protegé de tout feedback, de toute possibilité d’une réponse. Bien au contraire, ce déplacement-là ne serait qu’un rêve de la toute-puissance enfantine, l’abdication du sens des mésures et des proportions qui est le seul garant de l’objectivité de nos connaissances.

Il est même épatant que ce rêve d’omnipotence ait eté consacré como l’idéal même de l’objectitivé scientifique, que l’impossibilité de déttacher l’observateur des choses observées ait eté deplorée en tant qu’un sérieux obstacle à la connaissance, tandis qu’elle est justement le garant de la realité de toute connaissance, le garant d’un lien indissoluble entre le sujet el l’objet.

D´autant plus, en aucun cas la reconnaissance de la necessité du feedback dépend de ce que le prochain soit envers nous dans une rélation de voisinage physique. Si un modeste journal d’une petite ville Bresilienne publie des critiques à M. Lionel Jospin lesquelles M. Jospin ne lira jamais, même dans ce cas il faut que l’articuliste prenne pour modèle de son argumentation l’inversion imaginaire des réaction possibles de M. Jospin.

En toute connaissance que nous cherchons sur l’être humain, l’attente de la réciprocité est un besoin si pressant que nous pouvons la tenir pour présupposée.

C’est seulement losqu’elle fait défaut qu’elle nous attire l’attention. À ces moments-là, l’impression d’incongruité sera d’autant plus imposante quant plus inconsciente sera l’attente de réciprocité.

Si fondamentale est cette attente, que la norme juridique des relations humaines a comme critère essentiel ce que le juriste brésilien Miguel Reale a nommé bilatéralité attributive.

“Il y a bilatéralité attributive quand deux ou plus personnes sont en relation selon une proportion objective qui les autorise à prétendre ou à faire sûrement quelque chose. Quand un fait social présente ce genre de rapport, nous disons qu’il est juridique.”1

D’après Reale, la différence entre les phénomènes juridiques et les non-juridiques — économiques, psychologiques, etc. -, c’est que dans ceux-ci la bilatéralité n’est pas attributive, c’est-à-dire, la correspondance n’est pas assurée, elle n’obéit pas à un modèle uniforme ou obligatoire.

Donc, c’est précisément, à ces sphères-là que l’effort de conjecturer et prévoir la réponse devient encore plus important, et cet effort est si souvent répété qu’il s’intègre dans l’ensemble des automatismes de la vie quotidienne et dans les routines de la connaissance scientifique sans demander une théorisation spéciale.

3. LE FEEDBACK, CONDITION DE TOUTE CONNAISANCE DE L´HOMME, DE LA NATURE ET DE DIEU.

Aussi devant les objets de la nature — et il m’arrive maintenant que Eugen Rosenstock-Huessy définissait la nature en tant que “le monde moins la parole” -, notre confiance dans la réussite de nos idées se soutient totalement sur la certitude que les êtres naturels réagiraient d’une manière déterminée (et non pas indéterminée) à notre comportement: je sais qu’un chien est féroce parce que je connais le feedback qu’il me donnerait si je m’aprochais de lui fondé sur l’hypothèse qu’il ne le serait pas. Dans toutes les circonstances il est essentiel d´avoir la connaissance de la réponse possible. La totale absence de la connaissance de la réponse possible équivaut à la stupeur devant un énigme incompréhensible. Toute la difficulté que nous avons de connaître Dieu est précisément dans l’impossibilité de prévoir la réponse que Lui il donnerait à nos actes ou à nos avis. L’absence d’une réponse prévisible mène au désespoir l’homme qui s’engage dans la quête de la connaissance de Dieu.

Que ce soit dans l’étude de l’homme, de la nature ou de Dieu, la réponse offre le centre de perspective et la mesure globale du cadre de notre vision des choses.

L’une des differences majeures qui signalent le passage du mechanicisme classique à la science contemporaine est justement dans le fait que les hommes de science ont abandonné le projet de nous rendre une “image” du monde en tant que pur objet, pour lui substituer l’image mouvante d’une interaction et d’une mutuelle constitution de l’observateur et de la chose observée. L’interaction en tant que modèle a ensuite rendu de brillants services dans les recherches écologiques et s’est constituée finalement comme l’un des pilliers du “nouveau paradigme” scientifique.

4. L’HISTOIRE EN TANT QUE SPECTACLE

Pour toutes ces raisons-là, il est très bizarre qu’en général le besoin de prendre en compte la reciprocité soit tellement méprisé par les études historiques et par la vision générale que notre culture a du passé humain. L’extension de ce mépris peut être évaluée par la réaction d’étrangeté par laquelle l’historien contemporain nous répondrait si nous l’interrogeons sur ce qu’il imagine qu’Aristote ou Lao-Tsé ou encore Napoléon penseraient de ce qu’il nous dit à leur sujet.

Et pourtant, si nous examinons bien les choses, c’est sa réaction qui est étrange. N’est-il pas étonnant que les seuls objets que nous croyons pouvoir connaître en l’absence de tout feedback, ce soient les hommes du passé?

Est-ce que je peux m’orienter dans les mondes anciens sans autre guide que les opinions de mes contemporains?

Dans quel tribunal du monde la déposition des témoins vaut quelque chose, dépourvue de toute confrontation avec la déposition de l’accusé?

Aussi parfaite, scientifique ou réaliste que se prétende notre réconstitution du passé, elle ne réussit jamais qu’à en faire un spectacle, quelque chose qu’on voit et qui ne nous voit pas. Les morts sont à jamais exclus du dialogue, ils y sont les exclus par excellence. Ils ont des yeux mais ne voyent pas, ils ont des oreilles mais n’écoutent point. Nous les épions par le trou de la serrure que nous appelons “l’Histoire”. Ils sont des objects inermes de notre passion de voir sans être vus, qu’en dernière instance est la même chose que de juger pour ne pas être jugés. Cette passion reçoit dans nos traités et nos thèses universitaires le nom dignifiant d’objectivité. C’est là peut-être le plus grand mensonge depuis le commencement du monde.

5. LA SUPRESSION DE LA PRÉSENCE HUMAINE

D’anciennes traditions ont eu toujours conscience d’un dévoir envers les morts. Il n’avait rien à voir avec nos hommages paresseux et notre réconnaissance ambigüe d’une “importance historique” qui nous donnerait sur eux le droit d’une mésinterpretation au gré des convenances. Les vieilles traditions n’avaient pas la prétention de savoir sur les morts plus qu’ils n’en savaient eux-mêmes; encore moins de les juger du haut d’une plénitude des temps, de les expliquer en fonction de tel théorie de l’Histoire ou de tel méthode sociologique. Il ne s’agissait jamais de fouiller à leur insu leurs motivations secrètes, de les réduire à des fantoches mus par des forces inconscientes, d’en faire en somme des objets. On les respectait, on écoutait leurs avis, ils étaient obéis parfois longtemps après leur départ d’ici bas. Ils étaient des présences humaines, ils avaient droit de cité parmi les vivants, ils faisaient écouter leurs voix dans les assemblées. On les comprennait, en somme, tels qu’ils se comprennaient eux-mêmes de leur vivant. N’est-ce pas la plus haute compréhension que l’on puisse avoir de son prochain? La confiance aveugle que nous faisons aux progrès de la science historique ne nous éloigne-t-elle de plus en plus de la connaissance de l’identité concrète de nos aïeux, dans la mesure où l’ampliation exagerée du décor rend impossible un dialogue avec des êtres réduits artificieusement aux proportions de grains de sable?

La façon même dont nous cherchons à donner aux actions et aux mots des temps passés un “sens présent”, dans l’illusion de les “revivifier” généreusement, consiste presque toujours à leur attribuer des intentions fort eloignées de celles de leurs protagonistes. Nous disons par exemple, comme s´il en allait de soi, que “Descartes inaugura le subjectivisme moderne”. C’est attribuer à Descartes ce que d’autres ont fait de lui à son insu. Descartes lui-même ne se reconnaitraît point dans ce portrait, tout fait de l’insertion de sa personne, de sa vie et de ses pensées dans le cadre majeur de cycles historiques qui de son vivant ne s’étaient accomplis qu’à moitié dans le meilleur des cas et qui lui étaient parfaitement étrangers.

Les sciences historiques sont-elles condamnées à ne pas comprendre les hommes du passé sans faire de sujets humains des purs objets, sans dissoudre leur physiognomie dans celle de leurs descendants presque toujours infidèles?

Je ne me sens nullement qualifié pour donner à cette question une réponse générale. Mais un seul exemple, pris dans un champs spécial qui m’est plus accessible, c’est-à-dire à l’histoire de la philosophie, peut illustrer la direction dans laquelle il faut, à mon avis, chercher la réponse.

Quiconque s’approche des études sur la pensée grecque se surprend de voir les conflits entre des interprétations mutuellement excludentes de la philosophie de Platon, ou d’Aristote, traverser des siècles et des millénaires sans s’approcher le moins du monde d’une résolution. Au contraire, ce sont les questions et les doutes et les points de vue qui se multiplient, prennant souvent des formes nouvelles et imprévues. Il n’est qu’au seul point de vue quantitatif que celà peut être dit un progrès. Tout compte fait, le résultat de toutes ces controverses n’est dans la plupart des cas que l’éparpillement de l’objet de recherche en une poussière miroitante d’images, chacune d’elles assurant d’être “le vrai Platon” ou “le vrai Aristote”.

Tout le long de ce trajet, on peut discerner le retour cyclique de gigantesques essais de reconstruction, qui périodiquement restaurent l’unité de l’objet et offrent aux siècles suivants un champs unifié où les recherches ne sont plus une confrontation aveugle de thèses inconciliables, mais une collaboration organisée et féconde.

Pour ce qui concerne Aristote, ces moments-là n’ont été que deux, si l´on se limite au champs Occidental: le XIIIe. Siècle et notre propre temps. À la première de ces époques, la synthèse d’aristotélisme et de christianisme inaugurée par St. Albert le Grand et par St. Thomas d’Aquin ouvra le champs à un prodigieux essor des études aristotéliciennes, qui se prolongea jusqu’à Leibnitz. À notre siècle, la rédécouverte de quelques thèmes aristotéliciens au sein de la moderne science physique et biologique, ainsi que le retour du thème des rélations de l’éthique et de la politique, nous donnent la promesse d’extraordinaires aproffondissements de notre compréhension de la philosophie du mâitre d’Estagire.

Ce qu’il-y-a en commun entre ces deux remarquables évenéments séparés par sept siècles de distance, se sont deux choses:

1. Ni l’une ni l’autre ont été des oeuvres d’historiens.

2. En chacune d’elles il ne s’agissait pas d’aproffondir la connaissance de la philosophie d’Aristote, d’en obtenir une description plus complète ou une interprétation plus rigoureuse, mais d’étudier des questions du jour à la lumière d’Aristote. Il ne s’agissait d’interpreter Aristote, mais de se laisser interpréter par lui.

Il est aujourd’hui bien clair que le résultat et la vraie nouveauté des efforts de St. Thomas n’a pas été celui de christianiser Aristote, ce qui était d’ailleurs parfeitament dispensable une fois que Thomas s’était persuadé de l’accord essentiel de l’aristotélisme avec la foi chrétienne, mais, bien au contraire, celui d’aristoteliser le chistianisme, donnant à l’expression du dogme la forme d’un système déductif, ce que rien dans l’évolution du christianisme jusqu’alors laissait prévoir et qui allait produire pour l’histoire subséquente de l’Église les plus vastes conséquences.

Quant au renouveau aristotélicien que nous voyons de nos jours, il n’est pas surprennant qu’il soit en grand partie l’oeuvre de physiciens et de biologues, qui n’approchent pas les textes du maître en quête d’une vision historique de la pensée antique, mais d’une vision aristotélicienne de leur propre science.

Mais, tandis que cela se déroule devant nos yeux, qu’est-ce qui se passe avec Aristote dans le champs des études d’histoire de la philosophie proprement dite? Pendant presque tout en siècle, des historiens se sont battus en vain autour des hypothèses génétiques et des questions de méthode soulevées en 1928 par Werner Jaeger, sans trouver une voie de solution. Aujourd’hui comme en 1928 les deux partis, le génétique et le systématique, ont des combattants de valeur qui se multiplient en des efforts dialectiques d’une grande élégance, qui ne parviennent jamais à persuader le parti contraire2.

Pour quoi les choses se passent-elles comme ça? La réponse est d’une évidence presque scandaleuse: les historiens cherchent l’image d’un Aristote grec, d’un Aristote de son temps, d’un Aristote descriptible et plus ou moins fermé, d’un Aristote devenu chose, tandis que les biologues et les physiciens cherchent un interlocuteur vivant, un interlocuteur capable de venir en leurs secours, donc de les juger, de juger l´état de leur science.

En inversant les termes — mais pas le sens — d’une sentence célèbre du Prophète arabe, il faut extraire de ces faits-là la conclusion inéxorable: Seul celui qui vous peut nuire peut aussi vous aider. Celui qui ne présente pour vous le moindre danger ne vous peut servir qu’à des fins décoratifs.

Je vous prie de ne m’interpreter à rebours. Je ne censure nullement les efforts des historiens, qui sont parfaitement à leur place. Ce que je dis c’est que l’image génerale que notre culture actuelle se fait du passé puise son inspiration, d’une façon presque exclusive, dans le modèle des “historiens de l’aristotélisme”, jamais dans celui de la “biologie aristotélisée”.

Soit dans l’éducation, soit dans la presse, soit dans les conflits idéologiques, soit dans le langage cotidien, nous ne nous reportons au passé de l’humanité que comme quelque chose dont on doit prendre fuite le plus vite possible, comme quelque chose que doit être abandonnée et fermée pour toujours au-dedans de son cadre temporel immuable et muet comme un cercueil chronologique, pour éviter à tout prix qu’elle reprenne vie et, se tenant debout devant nos yeux, nous juge nous condamne.

Ce n’a pas été une coïncidence que la première et peut-être la plus célèbre réaction contre les abus de l’historicisme ait été l’oeuvre d’un penseur qui par la suite deviendrait la victime du germe d’historicisme qu’il portait en lui à son insu. Je parle de Werner Jaeger lui-même. En essayant de restaurer la communication avec le passé de notre culture, il entreprit de faire de l’idéal pédagogique des grecqs un modèle de valeur permanent, soustrait à l’usure du temps. Mais cela démandait aussi, à son avis, qu’il fournit quelque preuve de l’unité de la culture Occidentale, et il lui parût qu’il pouvait la trouver par l’intermède de la théorie aristotélicienne (mais aussi goetheénne) de la “forme interne”. L’idéal de l’homme de la philosophie de Platon serait donc la “forme interne” sous-jacente à tout le développement historique de notre culture. Voilà le rémède qui se révèle tout de suite plus dangereux que la maladie elle-même. Appliquer aux cultures et aux nations le concept de “forme interne”, c’est leur donner une sorte d’unité biologique, substantielle, ce qu’aurait surpris fortement Aristote lui-même, et c’est donc donner à leur developpement une forme similaire à celle du cours linéaire de la croissance et du vieillissement des organismes animaux, où il-n’y-a jamais de retour en arrière. Cette contradiction de l’idéal pédagogique de Jaeger nous montre à quel point

6. LA RÉTROPROJECTION HISTORIQUE

À partir de ces considerations, j’ai essayé de formuler il-y-a quelques années une méthode d’investigation qu’il m’a paru pertinent de nommer la retroprojéction historique. Elle consisterait à faire du présent l’objet du jugement des hommes du passé, à envisager donc le passé non pas en tant qu’objet, mais en tant qu’agent conscient qui nous voit et nous juge autant que nous le voyons et le jugeons nous mêmes.

Nous pouvons nous demander maintenant si mon appel à un changement d’attitude de l’historien à l’égard des hommes du passé ne se soutient-il sur l’absurde hypothèse d’une résurrection ou d’un dialogue chimérique avec les morts, comme dans une séance de spiritisme.

Mais il est évident qu’avec un grand marge de réussite nous pouvons facilement confronter notre interprétation du passé avec le jugement possible que les hommes du passé auraient fait d’elle, par trois moyens:

1. Le prolongement logique des conséquences de leurs opinions, jusqu’à ce qu’elles puissent être appliquées au cas spécifique de notre interprétation d’elles.

2. Le sondage des projections d’avenir implicites dans les actes et dans les mots de nos aïeux.

3. L´investigation des puissances d’autoconscience que nous pouvons developper à partir des idées et des valeurs des temps passés.

7. LES QUATRE DISCOURS D´ARISTOTE

Ce qui m’a le plus directement mené à cet entreprise a eté le besoin d’une nouvelle stratégie pour l’investigation que j’étais en train de réaliser à propos d’Aristote, de ce que j’appelle sa “théorie des quatre discours”. Dans mon livre Aristote sous une perspective nouvelle j’ai soulevé la question d’une unité théorique implicite soutenant l’émergence de ses quatre sciences du discours humain. Aussi, Poétique, Rhétorique, Dialéctique et Analytique chez Aristote couleraient de la même source unitaire: d’une doctrine générale de la crédibilité et de la preuve. Celle-ci, de sa part, aurait une rigoureuse homologie structurale avec la gnoséologie et la psychologie d’Aristote, posant ainsi les bases d’une philosophie de la culture, dont une nouvelle théorie générale de l’interdisciplinarité. Je ne suis guère parvenu à de telles conclusions à travers une “relecture” des textes du maître d’Estagire à la lumière des connaissances actuelles et des méthodes modernes de la philologie et de l’histoire da la philosophie. Au contraire, j’ai essayé de me figurer ce qu’auraient pu être ses réponses à lui à certaines questions précises de l’actualité concernant, à l’occurrence, cet idéal typique de nos temps que nous appellons l’interdisciplinarité. Comment se serait-il posé, disons, le problème que se pose le dualisme bachelardien qui affirme la coexistence d’un univers des images poétiques e d’un univers des lois rationelles? L’oeuvre de Scott Buchannan Poetry and Mathematics, qui affirme l’identité profonde du poétique et du mathématique, l’aurait-il davantage satisfait? Il m’a plutôt semblé que pour Aristote ni le dit dualisme bachelardien ni la fusion buchannienne n’auraient suffit. Sa vision n’aurait pu être que celle d’une conversion progressive de la Poétique en Analytique à travers la médiation inévitable de la Rhétorique et de la Dialéctique, telle conversion étant dans la nature même du procès cognitif comme conçu et décrit par lui, lequel préssupose la transformation des perceptions en schémas plastiques et de ceux-ci en des schémas eidétiques, base des concepts. Pour lui l’apparente dualité se serait résolue dans une quaternité.

J’allais avoir par la suite la joie inattendue de voir mes conclusions confirmées, par des méthodes fort diverses, dans les études, aussi remarquables l’une que l’autre, de Deborah Black et Salim Kemal sur le “syllogisme imaginatif” dans l’aristotelisme arabe3. Il m´est apparue alors comme évidente la fécondité d’une méthode que je m’étais hasardeusement permise. L’inversion du regard que je proposais, loin d’être un caprice de philosophe, surgissait ainsi comme un outil délicat mais formidable à la fois pour l’historien et le philologue. Il ne s’agirait plus de voir le passé dans le miroir de l’histoire des idées selon l’image que nous nous faisons à la fois d’eux et de nous mêmes; il s’agirait aussi et surtout de suposer derrière ce miroir l’existence d’un autre regard, vivant et actif, capable de nous donner au besoin une réponse autre que celle découlant nécéssairement de l’idée que nous avons de nous mêmes e du passé. Passé vivant, aussi juste et précise que puisse être son image selon l’historien le plus aigü et scrupuleux, ne serait pourtant pas encore notre lecture de lui; ce passé, s’il est vivant de fait et de droit, aurait aussi une lecture à faire de nous, de nos lectures de lui. Le charactère vivant du passé ne se trouve point dans le réalisme de son image la plus complète et fidèle, autant que dans sa capacité de voir, donc de nous faire voir, notre image à nous. Où les meilleurs historiens ont réussi à faire venir à nous le passé, il leur resterait la tâche de nous conduire jusqu’à ce passé. Nous savons beaucoup de ce passé. Ce qu’il nous reste à faire c’est connaître ce qu’il savait de nous, ce qui’il sait de nous.

En somme, si notre souci d’objectivité est quelque chose de plus qu’une simple réification du passé, il ne s’agit pas que de savoir ce que nous pensons de Platon ou de Descartes, mais aussi ce que Platon ou Descartes auraient pensé de nous. Notre méthode se fonde dans le pressupposé que toute pensée humaine n’a de sens que dans le cadre d’un futur projeté, desiré ou craint, e qu’il est donc toujours possible de juger le présent devant un tribunal des temps passés. Il s’agit de corriger les exccès et les distortions inhérents à une confrontation où l’un des antagonistes se trouve d’être mis sous le couvercle d’une confortable invisibilité. Sans nous soumettre à un tel jugement, sans nous exposer aux yeux des morts autant qu’ils sont exposés aux notres, notre prétendue objectivité historique ne sera jamais qu’une illusion flatteuse.

Beaucoup de temps et beaucoup d’efforts ont été dispensés pour que la science et la culture modernes devennaient libres d’un ethnocentrisme naïf — ou peut-être malin, mais d’une malice naïve — qui prennait par absolues et inconditionnées des valeurs que l’évolution des faits historiques n’avait produites que comme des adaptations de l’espèce humaine à des situations transitoires. Cependant, la neutralité axiologique à qui les sciences humaines se sont habituées depuis Max Weber et le rélativisme qui est devenu le premier commandement de la recherche anthropologique depuis Margaret Mead, ont produit, à la longue, la chûte dans un rélativisme doctrinal, dogmatique et absolutiste, lequel, en faisant de soi-même la seule vision acceptable du monde, ne resulte qu’en restaurer retroactivement le même ethnocentrisme, sous des pretextes différents, étant donné que seul l’Occident moderne a pour croyance le relativisme et que toutes les autres cultures, quand elles se révoltent contre lui et défendent l’absoluité de leurs valeurs réligieuses et de leur vision du monde, sont immédiatement condamnées comme “arrierées”, “radicales”, “fanatiques” et “fondamentalistes”. Il ne leur reste, devant l’autorité absolue du rélativiste, que la protestation impuissante du dominé envers le dominateur.

Par ailleurs, le rélativisme des anthropologues et des sociologues n’a pris sous la protection de son refus de juger que quelques communautés privilegiées encore existantes aujourd’hui, les indiens, par exemple, en refusant un similaire bénéfice aux cultures extinctes, aux temps anciens de notre propre culture et aux communautés de “fondamentalistes” de notre propre temps — c’est-à-dire, aux morts de mort physique et aux morts de mort métaphorique — tous condamnés ensemble à se tenir muets et inermes devant la voix toute-puissante du rélativisme erigé en verité absolue. La révogation de l’ethnocentrisme a laissé intact le chronocentrisme qui est le germe duquel il renaît perpetuellement.

Et ce n’est pas par hasard que la plupart des communautés exclues du dialogue sous pretexte de fondamentalisme sont justement celles qui conservent le sens d’un dialogue avec le passé, par exemple les musulmans, lex juifs orthodoxes, les catholiques traditionnalistes, des gens pour lesquelles la révélation coranique, le rencontre de Moïse et de Jéovah au Mont Sinaï, le sacrifice du Calvaire ne sont pas des événements d’une autre époque, mais des actualités vivantes. Voilà comme le relativisme moderne qui professait faire tomber les murs du prejugé et de la discrimination finit par se constituer lui-même comme la forteresse de l’exclusion. Et s’il est vrai que chacune de ces communautés-là a aujourd’hui le devoir de touver une voie de conciliation entre son amour des traditions et le desir d’occuper une place dans un monde pluraliste, il ne l’est moins que ce monde-ci a le devoir de faire de son relativisme quelque chose de mieux qu’un dogmatisme moderniste hypocrite et intolérant.

Mais il est clair que le seul profit légitime qu’on peut obtenir du rélativisme, je veux dire d’un rélativisme sérieux qui s’atienne aux limites de la méthodologie sans prétensions à devenir une autorité dogmatique, ce serait précisement celui de nous libérer de tout provincianisme, aussi spatial que temporel, celui d’elargir nos horizons et d e nous faire avancer vers une vision plus exate du cadre des rélations, où notre régard est inseré comme un acteur dans la scène, jamais comme un pur spectateur. La destinée idéale de tout rélativisme c’est d’être provisoire, c’est de se transcender, de se transformer en autre chose, de mourir comme doute pour renaître comme certitude plus nuancée et plus vraie. Aussitôt que le relativisme n’est plus un simple point de départ mais s’affirme comme point d’arrivée, aussitôt qu’il n’est plus une méthode mais s’affirme comme doctrine, il devient le plus opressif et tyranique des dogmatismes, le plus injuste des juges, un magistrat invisible et omniprésent qui juge et condamne sous pretexte de s’abstenir de juger, et qui donc n’est jamais tenu responsable de ses redoutables véredicts4.

8. CONSÉQUENCES ÉTHIQUES ET POLITIQUES DE L´ÉXCLUSION DES MORTS

Le refus d’un dialogue d’égal à égal avec les vivants d’autrefois est le résidu d’un historicisme perimé en théorie mais investi d’une force nouvelle en tant qu’idéologie et pressuposé inconscient de l’image du monde dominante en ce fin de siècle. Les conquêtes de la technique, la vitesse bouleversante des transformations politiques et sociales, la constitution d’un marché global avec tous les changements psychologiques et sociales qui l’accompagnent, tout celà est de nature à nous renfermer de plus en plus dans le présent, à rétrécir notre conscience historique, à nous faire voir l’Histoire comme um cimitière de l’irrélevant, donc à nous mettre pour ainsi dire hors du temps, c’est à dire hors de nous-mêmes, dans un état d’hypnose.

Mais à mésure que le passé s’éloigne de nous, il nous devient chaque jour plus difficile de le prendre comme terme de comparaison, et une époque qui ne peut se comparer qu’avec elle méme est réduite à un état d’autisme. C’est l’origine des abîmes d’inconscience qui sillonent l’espace de nos débats publics. Por ne donner qu’un seul exemple qui me semble pertinent au sujet de ce colloque:

“Notre époque, qui se vante d’être celle de la démocratie et de l’égalité, a troué entre les hommes des abysses de différences qui surpassent la force humaine de les transposer.

Imbus de l’illusion égalitaire, nos contemporains croient que le monde chemine vers le nivellement des droits, sans se demander si cet objectif peut être réalisé par d’autres moyens que la concentration du pouvoir. Cette illusion les rend aveugles pour les réalités les plus évidentes, entre lesquelles celle de l’élitisation, sans précédents, des moyens de pouvoir. L’imaginaire moderne conçoit, par exemple, le seigneur féodal comme l’épitome du pouvoir personnel discrétionnaire, et il ne se rend pas compte que le seigneur féodal était limité par toute sorte de liens et de compromis de loyauté mutuelle avec ses serfs, et en outre il n’avait d’autres moyens de violence que quelques chevaliers armés d’épée, de lance, d’arc et de flèche; un homme parmi d’autres, tout le monde le voyait à la campagne et au village, il marchait ou chevauchait côté à côté de son serf, quelquefois en l’amenant en croupe, en rentrant de la taverne où tous deux s´énivraient ensemble, et, dans les plaines immenses où son cri se perdait au loin, il pouvait alors être attrapé, inerme, dans un cas de grave offense, par une lame vengeresse. Par la fourche du paysan. Par un couteau de cuisine.

En comparaison avec lui, aujourd´hui, l’homme du pouvoir est mis à une telle distance des dominés, que sa position se ressemble à celle d´un dieu devant les mortel. D’abord, les gens du pouvoir sont isolés de nous geographiquement: ils habitent les grands immeubles, entourés de portes éléctroniques, d’alarmes, de gardiens armés, de meutes de chiens féroces. Nous n’y pouvons pas entrer. Deuxièmement, son temps vaut de l’argent, plus d’argent que nous n´en avons; parler avec l’un d’eux c’est une aventure qui demande la traversée d’infinies barrières bureaucratiques, des mois d’attente et la possibilité d’être reçu par un auxiliaire doté d’infaillibles excuses. Troisièmement, les occupants nominaux des hautes fonctions ne sont pas toujours les vrais détenteurs du pouvoir: il y a des fortunes occultes, des autorités occultes, des causes occultes, et nos demandes, nos imprécations et mêmes nos coups de feu risquent d’attraper une façade inoffensive, laissant échapper le vrai destinataire que nous ne connaissons pas. Nous nous perdons dans la trame si compliquée des hiérarchies sociales modernes, et nous avons la raison d’envier le serf de la glèbe, qui avait au moins le droit de savoir qui était son maître. Après deux siècles de démocratie, d’égalitairisme, de droits humains, d’État d’assistance sociale, de socialisme et de progressime, voilà la part qui nous est réservée: les hommes du pouvoir planent au-dessus de nous dans un nuage d’or divinement inaccessible.

Voilà comment le progrès des droits nominaux ne se fait pas accompagné nécessairement d’une augmentation des possibilités réelles.”5

La distance qui sépare, dans nos débats courants, les concepts et les états de fait, donne quelquefois à la vie intellectuelle contemporaine l’allure d’un dialogue de fous. Tout cela provient de l´absolutisation du temps, qui cause la perte de la perspective historique, donc notre progressive incapacité de nous mésurer. Après avoir taisés les hommes des autres temps, notre époque n’admets de comparaison qu’avec elle-même, et, prisonnière de sa singularité absolue, elle finit par devenir invisible et incompréhensible à soi-même, étant donné que, comme le disait l’aristotélisme médieval, individuum est ineffabile.

La perte du dialogue avec les vivants des siècles passés précède la perte de la communication avec nous-mêmes, et, du haut d’une prétendue plénitude des temps, nous tombons dans l’abîme d’une inconscience noire.

Retrouver le dialogue avec le passé c´est rétrouver le sens de l’unité de l’espèce humaine, et ce serait de la folie que de prétendre reintégrer à l’humanité ce groupe-ci ou ce groupe-là, qui sont aujoud’hui parmi les exclus et les discriminés, sans éliminer auparavant la discrimination de toute l’humanité qui nous est précédée.

L’homme qui, ne pouvant parler, n’est pas en mesure de mettre en question ce que nous disons de lui, est pour nous comme les morts pour les vivants. Mais aussitôt que nous nous rendons compte que cette analogie est plus qu’une analogie, qu’elle traduit la relation réelle et éféctive que nous avons avec les morts, il est juste de nous demander si l’exclusion qui réduit métaphoriquement les exclus à la condition des morts ne se fonde-t-elle pas dans une exclusion préalable, littérale et effective, des morts de l’assemblée des hommes parlants. N’étions-nous pas sourds aux voix des morts, nous le serions difficilement aux voix de ceux que nous réduisons à la condition d’être comme des morts. Si l’elóignement physique total et définitif n’était pas suffisant à étoufer le cri des hommes, que dire des éloignements partiels et contingents de race, de classe, de croyance, de nation?

Qu’importe en fin des comptes la discrimination, l’exclusion de tel groupe ou tel autre, si le chronocentrisme de notre culture exclue et discrimine presque toute l’humanité? Il ne serait peut-être pas excessif de nous demander si les discriminations partielles ne seraient-elles que des expressions mineures et localisées d’une générale discrimination de l’homme muet par l’homme parlant. Des absents par les présents. Des morts par les vivants.

Le primat du moment qui passe sur toute l’histoire humaine n’est pas qu’un défaut de perspective, un manque de réalisme; il est aussi le primat du moi sur l’autre, des interêts imédiats sur les exigences de la raison et de l’amour au prochain. Si dans notre vie personelle l’immédiatisme est intimement associé à l’egoïsme, porquoi ne le serait-il pas sur le plan majeur de l’Histoire et de la societé? D´autant plus, les exclusions et les discriminations n’étant que l’expression d’une sorte d’egoïsme social, il n’est pas raisonnable de pretendre leur donner combat et en même temps preserver à l’abri de tout attaque l’egoïsme historique et temporel qui est à la racine du chronocentrisme.

Si nos investigations et nos débats concernant les procès d’exclusion et de discrimination dans nos societés actuelles ne prennent pas en compte ces questions que je viens de soulever, ils risquent de nous jetter dans une inconscience historique plus profonde encore.

NOTES

  1. Miguel Reale, Lições Preliminares de Direito, 23a. ed., São Paulo, Saraiva, 1996, p. 51. Voltar
  2. V. Enrico Berti, Aristóteles no Século XX, trad. Dion Davi Macedo, São Paulo, Loyola, 1997. Voltar
  3. Deborah L. Black, “Le ‘syllogisme imaginatif’ dans la philosophie arabe: contribution médiévale à l’étude philosophique de la métaphore”, em M. A. Sinaceur (org.), Penser avec Aristote, Toulouse, Ères-UNESCO, 1991; Salim Kemal, “Aristotle’s Poetics in Avicenna’s Commentary”, Oxford Studies in Ancient Philosophy, VIII: 1990, 173-210. Voltar
  4. V. “O Antropólogo Antropófago: Considerações sobre o Relativismo” (“L’Anthropologue Anthropophage: Considérations sur le Rélativisme”), conférence prononcée à la Casa de Cultura Laura Alvim (“Maison de Culture Laura Alvim”), à être publiée prochaînement par la Faculdade da Cidade Editora. Voltar
  5. O Jardim das Aflições, IV, IX, §32: pp. 350-351. Voltar

SIMBOLI E MITI NEL FILM Il Silenzio degli Innocenti

Traduzione di

EUGENIA GALEFFI e MAURO PORRU

Prefazione di
JOSÈ CARLOS MONTEIRO
PROFESSORE DI STORIA DEL CINE
ALL’UNIVERSITÀ FEDERALE DI RIO DE JANEIRO

1996

PREFAZIONE

Come una sfinge, Il Silenzio degli Innocenti si è imposto, quale antropofago, alla stragrande maggioranza dei critici che si sono impegnati a decifrarne gli enigmi. Molti, frettolosi e superficiali, hanno evitato la sfida. Hanno preferito scartare il film come se si trattasse solo di un thriller carico di tensioni ed efficace — un adattamento criterioso e solido dell’omonimo romanzo di Thomas Harris senza la trascendenza che alcuni esegeti si ostinavano a vedere al di là della sua apparenza “hollywoodiana”. Così, con quest’atteggiamento evasivo, si risparmiavano l’imbarazzo di non aver trovato risposte adeguate agli innumerevoli misteri latenti nel capolavoro di Jonathan Demme. Ma altri critici, irresistibilmente affascinati dal lussurreggiante simbolismo del film, hanno deciso di esaminarlo più profondamente, cercando di andare oltre le apparenze formali del primo impatto.

Ma chi ha rivelato le qualità immanenti e trascendenti del film in tutti i loro aspetti non sono stati i critici cinematografici, ma gli studiosi dei miti e dei simboli. Uno di essi, Olavo de Carvalho, ne è in modo particolare, riuscito ad elucidare le metafore, le realtà archetipe e le suggestioni esoteriche di The silence of the Lambs. Nelle conferenze tenute presso la scuolaAstroscientia in occasione della presentazione del film, il suoinsight ha interpretato sotto nuovi punti di vista non solo la narrativa e il suo significato, ma anche la rappresentazione e le immagini “costruite” dal regista nordamericano. Da quest’analisi, affascinante e — oso dire —   definitiva, emerge la visione di un’opera densa e profonda, esoterica ed iniziatica, unica nell’ambito del cinema americano degli ultimi tempi. In Europa, il russo Andrei Tarkovsky (  Andrei Rublev, Solaris, Stalker  ), il francese Robert Bresson (  Pickpocket, Lancelot du Lac, Le Procès de Jeanne D’Arc ), l’italiano Ermanno Olmi ( L’Albero degli Zoccoli ), il greco Theo Angelopoulos ( Passaggio attraverso la Nebbia, Il Viaggio dei Commedianti ) e — perchè no? — il polacco Andrzej Zulawski ( La Terza Parte della Notte ), scrutanono già da molto tempo, nei loro film, i tormenti intimi, i dolorosi processi della “conoscenza del dolore”, le vicissitudini di chi passa dal crollo alla redenzione.

Olavo de Carvalho da un lato, dimostra di possedere un interesse per le arti simboliche, per il mondo dell’invisibile, e dall’altro, dimostra una profonda comprensione dei mezzi usati dall’ideatore, per poter fare della sua opera un film classico e moderno allo stesso tempo. Con molta chiarezza, senza un’erudizione libresca, ma con un notevole dominio delle fonti su cui si basa, Olavo de Carvalho porta la sua interpretazione riguardo la simbologia di The Silence of the Lambs a dei livelli raffinatissimi. Per come lo vede lui, il lavoro di Jonathan Demme è stato ideato e gestito in modo da rattificare la traiettoria iniziale dei personaggi (  in particolare i protagonisti centrali dell’intreccio, l’astuto e cannibalesco Dott. Hannibal Lecter, l’esitante detective Clarice Starling, il misterioso capo dell’FBI Jack Crawford e l’allucinato serial killer Jame Gumb ). E ancora: Demme, secondo l’analisi di Olavo de Carvalho, voleva innanzitutto fare del suo film “un apologo sul conflitto tra l’intelligenza umana e l’astuzia diabolica” — un apologo sul tragitto dell’iniziazione autoconoscitiva.

Diderot asseriva che “tutta la vera poesia è emblematica”. Se così è, si può dire che Il Silenzio degli Innocenti contiene poeticamente, in ogni immagine, tutti gli emblemi della ricerca dell’individuazione, della rivelazione, della verità. Attraverso il tragitto di Clarice Starling, Jonathan Demme evoca l’itinerario dei cavalieri medievali alla ricerca del Santo Graal, di tutti i mistici nel confrontare le tentazioni del Mondo e del Diavolo. Nel suo testo, come se si trovasse in un cosmoprocesso estetico e spirituale, Olavo de Carvalho ridimensiona le angoscie e le perplessità della figura di Clarice Starling, per poterci far capir meglio i suoi gesti, i suoi atteggiamenti. E, come se fosse davanti ad una lente d’ingrandimento, ( ri )configura ogni piano: ogni sequenza de Il Silenzio degli Innocenti per poterci infine, dare un nuovo film. Presumo addirittura per il suo autore.

Josè Carlos Monteiro

Radio Jornal do Brasil

NOTA PREVIA
ALLA PRIMA EDIZIONE BRASILIANA

Questo libro trascrive — senza alterazioni tranne che per i particolari di stile — la dispensa distribuita ai fruitori delle tre conferenze che, sotto il titolo “Interpretazione Simbolica del Film Il Silenzio degli Innocenti”, ho pronunciato alla scuolaAstroscientia, di Rio de Janeiro, nel luglio 1991, quando il film era ancora in prima visione.

Alcune copie sono state anche distribuite a persone dell’ambiente del cinema e della stampa; ma circostanze fortuite ed avverse hanno impedito che si fosse fatta allora una regolare edizione, la quale ora è possibile grazie alla generosa collaborazione di Stella Caymmi e Ana Maria Santos Peixoto.

Avendo vinto il film cinque Oscar nell’aprile 1992, mi pare ora il momento buono per rimetterlo in discussione, cercando, per la seconda volta, di andare un po’ oltre i soliti commenti banali ( quando non francamente erronei ) che sono stati l’unica reazione della critica nazionale quando c’è stata la sua proiezione.

Questo libro appartiene ad un genere anacronistico e sicuramente susciterà una certa perplessità da parte di un pubblico abituato a ricevere, sotto l’involucro di “critica del cinema”, ciò che è in effetti assolutamente differente. È che diciotenne — due decenni e mezzo fa, e in un altro Brasile — non era peccato scrivere dei lunghi saggi su di un film; non era peccato pensare, investigare, tentare di approfondirne il senso. Saggi come questo erano pubblicati sulla stampa in ogni momento, e noi, giovani aficionados, appena terminava lo spettacolo correvamo alla ricerca delle parole sagge di Almeida Salles, di Paulo Emìlio, di Guido Logger, di Alex Vianny e di tutti coloro che si dedicavano al mestiere di aiutarci a comprendere l’arte del cinema; mestiere che oggi come oggi soffre dello stigma e della riprovazione comune, tranne che quando esercitato discretamente dentro il ghetto universitario. Le pagine critiche dei giornali hanno un’altra finalità, e pensare in pubblico è diventato indecente. Mi dispiace ferire la decenza popolare: è che, decisamente, appartengo ad un’altra epoca.

Olavo de Carvalho

SIMBOLI E MITI NEL FILM
IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI

Il Silenzio degli Innocenti ( “The Silence of the Lambs” ) è ben più di un thriller abilmente realizzato o del dramma della passioneche la critica brasiliana vi ha scorto. Se colpisce così profondamente la platea, non è solo per il fascino macabro del tema, per la destrezza quasi allucinante della direzione o per le interpretazioni toccanti di Anthony Hopkins e di Jodie Foster, quanto per il simbolismo profondo della sua favola. Anche se la coscienza dello spettatore non se ne accorgerà, questo simbolismo non può fare a meno di colpirlo nell’intimo della sua condizione umana, per la forza di un linguaggio universale. Questo raggiungimento simbolico eleva il film di Jonathan Demme alla categoria del grande capolavoro.

Come ogni grande opera d’arte, questo film fa scatenare delle sensazioni che vanno oltre al mero godimento estetico immediato, e riecheggiano in benefici psicologici di grande portata. Mai, da “M: il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang, o “Vergogna”, di Ingmar Bergman, il cinema è stato così vicino a realizzare una percezione come quella della tragedia greca, che, secondo le parole di Aristotele, era quella di ispirare “terrore e pietà” o più precisamente, la pietà mediante il terrore: purificare l’uomo e renderlo incline al bene mediante la visione dell’Assurdo e del male inerenti all’ordine cosmico.

Tuttavia, per poter sfruttare pienamente i benefici che quest’opera ci porta, bisogna andare allora al puro impatto estetico iniziale e approfondire una coscienza intellettuale del suo significato. L’insegnante che addita e avverte, mentre fa girare l’attenzione dello spettatore verso i punti significativi e le strutture profonde, prolunga così e potenzia il lavoro dell’artista, al tempo stesso nel quale apre i canali per un incontro con l’anima del pubblico.

Questo sarebbe, a rigore, il compito della critica. Non riesco a concepire il critico militante se non come una specie di educatore, nella linea proposta da Mathew Arnold. Non c’è da stupirsi, pertanto, che molto spesso io mi rissenta ( disilluda ) con la critica nazionale, cinematografica, letteraria o teatrale che sia: questa si è ridotta alla mera notizia, all’apprezzamento secondo schemi tecnico-industriali o all’espressione di sentimenti personali. Queste tre modalità di anti-educazione sono state grandemente praticate a proposito de Il silenzio degli Innocenti. Così si è persa una grande opportunità. Nelle pagine che seguono, faccio quello che posso per rimediare a questa carenza.

Inizio con un esempio. L’articolo di Márcia Cezimbra ( Quaderno Idéias del Jornal do Brasil, 2 giugno 1991 ) mette i lettori su una falsa pista, con la quale non si arriverà mai a capire il film. Ma lo sbaglio deve esser passato inosservato, giacchè molti spettatori, che ho interpellato, hanno recepito la storia esattamente come lei: una favola del desiderio, il dramma della passione occulta tra uno psicopata antropofago e una bella agente dell’FBI. Questa interpretazione è stata accettata da quasi tutti i critici.

Io non avrei il coraggio di oppormi a tanta rispettabile unanimità, se essa non fosse in contraddizione anche con le opinioni dei due attori principali, espresse in interviste che o non sono state lette o non sono state prese in considerazione in Brasile. Hopkins dice che il Dott. Lecter — il supposto oggetto dei desideri dell’eroina Clarice Starling — è veramente il demone. Non è un demone, ma il Demone, nome proprio. E Jodie afferma che Clarice è una vera eroina come non c’è mai stata al cinema, perchè, nel quadro di un dramma mitologico, lei deve “lottare contro i demoni e conoscere se stessa”. Ed è stata proprio questa anche la mia interpretazione riguardo al film: la lotta di un’eroina socratica per dissotterrare la verità dal profondo delle tenebre, della menzogna, della follia. Jodie ha ragione nel dire che un’eroina di questa portata al cinema non c’è mai stata ( con un’unica possibile eccezione, lo osservo, di Giovanna D’Arco di Robert Bresson ). Ma raggazzine affascinate da mostri sexy sono una cosa banale che possiamo vedere ogni settimana nei serials televisivi, calcati in King Konge La Bella e la Bestia. Se Jodie e Hopkins hanno ragione, allora i critici brasiliani si sono profondamente sbagliati.

Il motivo di non aver centrato il bersaglio, è in certi tic mentali che si sono introdotti a mo’d’epidemia tra gli intellettuali brasiliani, e che fanno scorgere il tutto attraverso una linea obliqua pre-fabbricata. In Brasile le parole “desiderio” e “passione” in questi ultimi anni sono diventate chiavi universali, applicabili a destra e a manca per spiegare il tutto. È anche un fenomeno locale l’onda di nietzschianesimo militante, che non riesce a far scorgere qualcosa di buono che sotto forma di un male almeno apparente e che riscontra in ogni affermazione esplicita di valori positivi un sintomo di ipocrisia o di falsa coscienza. Da questo punto di vista, tutto al mondo è simulazione e auto-inganno: tolti i veli della finzione, viene a galla l’unica vera realtà, la quale, in tutti i casi e circostanze, consiste sempre e solamente in “passione” e “desiderio”, con dei tocchi di machiavellismo indossato come naturale e sano a titolo di “sincerità”. L’ermeneutica da ciò risultante — e che i suoi cultori applicano indistintamente a sintomi psicopatologici, a manifestazioni dell’arte e del pensiero, a istituzioni e costumi, insomma, a tutto, meno che alle proprie idee — è rigida, meccanica, e ripetitiva fino alla demenza. Non occorre dire che la tendenza a veder le cose da quest’ottica maliziosa è un fenomeno sociologico brasiliano, facilmente spiegabile, data la delusione dei nostri intellettuali per la democrazia tanto duramente conquistata e tanto velocemente guastata. Visto da questa ermeneutica, il Sole è mosso dalle ombre e, evidentemente, il polo attivo della trama de Il Silenzio degli Innocenti non può che essere il Dott. Lecter. Logicamente: lui è il cattivo, dunque dev’essere il buono. Il demone intelligente esercita un fascino sull’intellettualità sconfitta, che, vedendo la vittoria dei malvagi sul mondo, sogna di diventare come loro; e, ipnotizzata dal sorriso maligno del Dott. Lecter, attribuisce le stesse sensazioni a Clarice Starling, senza notare che, con ciò, non ne fa un’interpretazione ma una proiezione.

Storie di smascheramenti di valori, dove il bene può apparire soltanto sulla forma inversa di una “sincerità” del male esplicito, sono di moda in Brasile, per esempio nelle telenovelas. Sono tipiche di situazioni sociali dove una intellettualità rifiutata e marginale si corrode in risentimenti: con quale sollievo e conforto il giovane genio vilipendiato riceve allora la notizia che Nietzsche valorizzava il risentimento come metodo ermeneutico, e che Freud vedeva nel sospetto l’attegiamento interiore più propizio all’investigatore psicologico! Avvelenare il mondo, nell’espellere risentimenti e sospetti da tutti i pori, diviene allora la suprema forma di attività intellettuale, una modalità superiore dello scibile scientifico. Questo è lo stato di spirito dominante nell’intellettualità brasiliana, almeno nella sua parte più rumorosa ( e apparentemente nessuno si rende conto che c’è una contraddizione tra lo stimolare la malizia e pregare la moralità pubblica ).

Ma, nel cinema nordamericano, ciò che si scorge oggi è l’esatto contrario: è una tendenza attuale affermare esplicitamente e letteralmente i valori positivi, come si nota per il successo avuto dal Ballare con i lupi: un’apologia diretta e “ingenua” del bene e dell’onestà. Non sarebbe più logico interpretare Il Silenzio degli Innocenti alla luce di questa tendenza dominante nel suo paese d’origine, che stringerlo per forza nella cornice delle preoccupazioni locali e momentanee degli intellettuali brasiliani? Detta in un altro modo: la mia ipotesi è quella che il direttore Jonathan Demme e il regista Ted Tally hanno voluto fare un apologo sulla lotta tra l’intelligenza umana e l’astuzia diabolica, infischiandosene della passione, del desiderio, Freud, Nietzsche e così via. L’onda di Freud e Nietzsche negli USA è finita. Qui si cercano di forzare le situazioni per poter vedere le cose da quest’ottica, e il risultato è quello di scorgere ciò che non esiste, e così si persuade il pubblico a credere che ciò esista.

È certo che sussistono passione e desiderio nella storia de Il Silenzio degli Innocenti, ma sono là come pretesti ( tra altri argomenti ) e non come fondamenti della forma e della struttura, che, in questo, come in qualsiasi altro film, sono la cosa più determinante.

E certo pure che il Dott. Lecter è affascinante, soprattutto perchè è enigmatico e ambiguo. Ma tra dire che questo fascino è riuscito ad avviluppare Clarice nella rete della passione, ne corre abbastanza. È come la differenza che esiste tra possedere una pistola e commettere un omicidio. Il Dott. Lecter è affascinante, sì, ma Clarice è abbastanza scaltra. Già a partire dalla fase iniziale del loro duello di bramosie, il primo che abbassa gli occhi è Lecter, e non lei ( ho rivisto il film solo per togliermi questo dubbio ); lei continua a essergli superiore anche quando sfida Lecter a conoscere se stesso mentre lui se ne va, irritato; e infine lei non ne esce dal primo appuntamento senza ottenere almeno una parte di ciò che in effetti voleva. Già dal primo round lei vince su Lecter per tre a zero, non cedendo mai nulla. L’unico vantaggio che lei offre a Lecter è soltanto apparente; è uno stratagemma ideato da Jack Crawford per indurre Lecter a collaborare; e la restituzione dei disegni, alla fine, è solo un pretesto per poter ottenere da Lecter un’informazione in più. Appuntamento dopo appuntamento, lei diventa sempre più sicura di sè. ( “So che lui non mi cercherà”, dice assicurandolo a una sua amica Ardelia Mapp, nel momento in cui tutta la platea suda per paura che Lecter faccia dell’eroina la sua cena ). E alla fine, sappiamo che Lecter, sebbene dissimulasse e borbottasse, aveva già dato a Clarice tutto il servizio. La ragazza è in gamba.

Il personaggio Lecter è abbastanza vistoso, ma ciò non ci deve far equivocare il potere che ha in effetti nella trama. Infine, tutto ciò che accade ( salvo degli incidenti di percorso che non interferiscono per niente sul risultato finale desiderato, e cioè, sulla cattura di Buffalo Bill ), tutto è stato ideato previamente dal capo di Clarice, Jack Crawford. Egli sapeva che Lecter era isolato in cantina ed ansioso di avere un contatto con il mondo; che non vedeva una donna da otto anni, che era al corrente delle informazoni su Buffalo Bill; e che Clarice poteva ottenere da lui tutto ciè che voleva. Crawford è l’unico che, fin dall’inizio, percepisce tutto il quadro delle possibilità e, con l’ingegnosità di un demiurgo, mette in moto le ruote del destino. Lecter già lo conosce da lungo tempo, e lo teme ( al contrario degli altri nemici, che sdegna ). Lui sa che è tutto un piano di Crawford e, ancor prima che gli chiedano qualcosa ( in quanto Clarice stessa ancora ignorava lo schema ), è d’accordo nello svolgere la sua parte. Lui cerca soltanto di ottenere con ciò un vantaggio collaterale, che consiste, non in mangiare Clarice ( in qualsiasi senso del termine ), ancor meno ad opporsi agli obiettivi di Crawford, ma sì, molto più modestamente, in avere un’occasione di squagliarsela.

Crawford, come il patriarca Abramo della narrativa coranica o il San Bernardo della leggenda medievale, ha fatto lavorare il diavolo per lui, il male a servizio del bene. Lui ha qualcosa del mago Prospero, della Tempesta di Shakespeare, che manipola gli elementi cupi e, vincendo l’improbabilità, riesce a portare tutto ad un lieto fine con la vittoria del bene e della luce. Lecter, a sua volta, potrebbe definirsi come il Mefistofele di Goethe:

Sono parte dell’Energia
Che sempre il Mal
intende e che Il Bene sempre crea.
(  Fausto, I, trad. Jenny Klabin Segall.  )

Un detto francese narra che il diavolo si fa carico delle pietre; perchè alfine, qualcuno deve pur fare la parte sporca del lavoro. Considerando che Lecter non crea delle difficoltà a Crawford, e che non attacca Clarice, e che tutti quelli che uccide nel film sono suoi persecutori, e non delle vittime innocenti come quelle di Buffalo Bill, il prezzo dei suoi servizi è addirittura modesto. Lecter leggeva nella mente degli altri, ma Crawford leggeva in quella di Lecter, laddove egli stesso non scorgeva proprio nulla. I nostri critici non si sono accorti che, dietro alla lotta Clarice-Lecter e Clarice-Bill, il duello a distanza tra i due psicologi è il vero motivo che struttura la trama, e dalla quale echeggia appena un antichissimo motivo delle narrative iniziatiche: il “duello dei maghi”.

Se Clarice non si lascia affascinare da Lecter, lui sì rimane affascinato da lei ( proprio come era stato pronosticato da Crawford ); e, sotto l’apparrenza aspra di uno strizza-cervelli che prova a smascherarla e dominarla, in fondo è lui che la idealizza e la venera; sul suo tavolo, nella gabbia costruita per catturarlo al Foro della Contea di Shelby, uno dei disegni da lui fatti mostra Clarice, circondata da un alone luminoso, con un agnellino in grembo. È un icona. Avendo cercato di sondare la mente di Clarice, egli sa perfettamente ciò che ha trovato laggiù. Come potrebbe un vecchio demone esperto far riconoscere l’immagine della Santa Vergine? Strappata dall’occhio perspicace, l’identità della professional woman ciò che appare dentro Clarice non è un fascio di banali desideri freudiani, è sì il pianto della Vergine davanti al sacrificio dell’Agnello, che lei non può impedire. Bisogna esser ciechi per non scorgere nel film un riferimento evangelico così evidente.

Ma la “brava Clarice”, come la chiama Lecter, se è capace di riconoscere con tanta franchezza le debolezze umane che Lecter svela in lei, ignora invece l’identità superiore che lui ne ha scorto dietro. Per questo lui può continuare a fingere di snobbarla e ingannarla, mentre di nascosto la venera e ne è schiavo. Anche il Diavolo è servo di Dio, sebbene ambiguo e recalcitrante: il vecchio ribelle cerca di salvare le apparenze. L’ambiguità di servire il Bene con la peggiore delle intenzioni è una delle tracce che definiscono il Belzebù, e lei ne fa, tradizionalmente, un personaggio da farsa piuttosto che da tragedia. La letteratura universale non ha fatto a meno di sfruttare questo abbondantemente, da Marlowe a Goethe fino alla nostra letteratura popolare (  Peleja de Manuel Riachão contra o Diabo — “Lotta di Manuel Riachão contro il Diavolo”  ) e il teatro popolare di Ariano Suassuna (  Auto da Compadecida — “Auto dell’Indulgente”; A pena e a Lei — “La Pena e la Legge”  ). È da questa ambiguità che proviene il fascino sottile che scorgiamo nel mostruoso Lecter; come ha ben osservato Anthony Hopkins in una sua intervista, “il diavolo ha il senso dell’humour”: quando il terribile va oltre un certo limite, diventa buffo. È un ricercato pedantismo voler trovare ragioni psicanalitiche per poter spiegare l’attrazione del Diavolo, quando si tratta soltanto di un topos (  un luogo-comune o uno schema ripetibile  ) della letteratura narrativa universale, e che funziona sempre quando viene usato con arte.

Clarice, dal canto suo, non si illude nei riguardi di Lecter. Quando un ragazzo dell’ascensore le chiede se lui è un vampiro lei gli risponde che “non esiste nome per ciò che lui è”. Quello che non ha nome non ha essenza, il che è un modo di dire che non è nulla. Non è una coincidenza che questo discorso anticipi immediatamente la scena in cui Lecter raccomanda a Clarice d’attenersi all’essenziale, lasciando stare l’accidentale. Secondo un’antichissima teodicea, il male non è propriamente un essere, ma un certo effetto accidentale della confluenza inopportuna tra dei beni di diversa specie (  per esempio, è bene amare una donna ed è bene avere un amico ), ma può succedere di amare la moglie dell’amico. Il male è un “ombra”, non un “corpo”. Studiando una setta satanica contemporanea, un autore informato paragona il male ad un totale di assenze, il quale dà origine a una forza di suzione che, non potendo sussistere in sè e per sè, si unisce e si appoggia al lato oscuro o mal conosciuto delle cose. Socrate e il vedantismo andavano oltre, decretando che l’unico male è l’ignoranza. Il fascino per il potere maligno, il soggiacere dinanzi al male, vengono proprio da quelle zone dell’anima che ci sono più sconosciute: vengono dall’inconscio, deposito, secondo Freud, dei desideri e delle immagini rifiutate e temute dal conscio. Cercando di sfuggire allo sguardo malizioso che penetra le difese del conscio, la vittima impaurita si prostra davanti l’avversario, nella speranza di ottenere la sua clemenza. È precisamente questo il lato che Clarice non offre a Lecter: quando lui tenta di smascherarla psicologicamente, lei non fugge, non si nasconde dietro a delle vane difese, nè cerca di intenerire l’avversario per placare la durezza del suo sguardo penetrante; con una schietta franchezza, lei riconosce la veracità dei sentimenti infantili che Lecter, discerne nel suo intimo: la trasparenza dei suoi moti e la ferma accettazione della verità finiscono per trasmutare lo sguardo maligno di Lecter, facendo sì che alla fine la perspicacia dell’avversario venga a favorirla. Con l’intenzione di disarmarla, Lecter trova in fondo a lei la roccaforte invincibile del retto intento. Ed il diavolo, che sdegna chi lo adora, si arrende con ammirazione dinanzi all’eroina che ama la verità.

Nella sua lezione di Logica sull’essenza e l’accidentale, Lecter cita Marco Aurelio. L’imperatore romano è stato uno dei grandi filosofi dello stoicismo, scuola che pregava l’abstine et sustine: non attaccamento e fermezza. Non è questo l’unico riferimento stoico, nel film. Fin dall’inizio Clarice appare ad allenarsi in un bosco nel retro bottega della sede dell’FBI a Quantico. All’ingresso del bosco, tre cartelli di legno inchiodati sugli alberi esortano il poliziotto principiante a sopportare il dolore, l’agonia e la sofferenza. Un quarto cartello aggiunge al messaggio stoico il comandamento cristiano: Ama. Due gocce di stoicismo in un solo film sono sufficienti per richiamare la nostra attenzione. Nel caso in cui il Dott. Hannibal Lecter non sia un intellettuale brasiliano che cita senza leggere, varrà la pena dare un’occhiata a questo Marco Aurelio.

La mescolanza di comandamenti stoici e cristiani non è strana. Fin dall’antichità i filosofi cristiani si sono accorti del valore dell’etica stoica e hanno cercato di assorbirla nel Cristianesimo. Marco Aurelio diceva, per esempio, che l’aspirante saggio non deve fuggire al male, ma abituarsi a guardarlo in faccia per poterlo neutralizzare, restando così immune al suo fascino. Dall’altro lato della sua aphateia (   assenza di emozioni  ), il saggio ormai fatto, potrà allora rimuovere il male con la forza del suo sguardo obiettivo e sereno, che chiama le cose coi suoi veri nomi, senza nulla aggiungere e toglierne (  è la “semplicità” intellettuale, citata da Lecter  ). Ma, in fondo all’aphateia, il saggio deve sempre serbare un atteggiamento di “clemenza comprensiva”, una specie di bontà o compassione intellettuale, non emotiva. Consiste nell’esser aperti alla comprensione del tutto, anche di ciò che è ripugnante, ma senza lasciarsi influenzare emozionalmente.

Aphateia e “clemenza comprensiva”, sono appunto i termini più adeguati a descrivere l’atteggiamento di Clarice davanti a Hannibal Lecter; lei non lo odia, non lo teme, non lo ama, non lo sdegna; lei lo osserva e l’ascolta, senza chiudersi nè lasciarsi soggiogare. Ella sostiene fermamente ( sustine et abstine ) la sua posizione dinanzi a Lecter, senza allontanarsi di un sol millimetro dalla clemenza comprensiva, da un lato, e, dall’altro, dalla fedeltà al dovere. Il che fa equilibrare i due piatti della bilancia stoica, in fondo, è la compassione per le vittime di Buffalo Bill: gli agnelli che lei desidera salvare. Clarice personifica la sintesi di stoicismo e cristianesimo annunciata dai cartelli nel bosco.

Alcuni filosofi cristiani hanno rimproverato allo stoicismo il carattere meramente passivo e reattivo della sua etica: esso enfatizzerebbe troppo la pazienza, la resistenza, l’astinenza, e meno il sacrificio attivo e la lotta per il Bene. Le virtù stoiche sarebbero, insomma, esclusivamente “femminili”, senza il segno virile del Cristo-Re. Un vero stoicismo cristiano, per poter esistere, dovrebbe iniettare qualche istamina nel vecchio e stanco Marco Aurelio.

Ma il cristianesimo non disprezza, in quanto tali, le virtù “femminili”. La sua epitome, nella visione cristiana,è appunto la Santa Vergine. Ella non “fa” propriamente nulla in tutta la narrativa evangelica. Obbedisce soltanto, patisce, aspetta, e piange dinanzi all’inevitabile. Anche Clarice soffre passivamente dinanzi alla impossibilità di salvare gli agnellini seppure ce ne sia uno. Patisce anche, attonita come gli agnelli, dinanzi alla morte del padre. È da questo dolore inerme, però, che nasce la vocazione della Clarice combattente, che affronta Lecter e spara a Buffalo Bill abbattendolo: così come dalla Vergine “passiva” nasce il Cristo, prototipo del sacrificio attivo, e così come dal pianto “inutile” della madre ai piedi della croce nasce l’innumerevole folla dei fedeli. L’antichissima liturgia ripete il ciclo, laddove dalla Chiesa che patisce nasce la Chiesa che combatte, e da questa la Chiesa che trionfa.

La stessa dialettica del passivo e dell’attivo come forze che nascono una dall’altra si ripete nel personaggio complementare di Clarice, Jack Crawford. Ma, in pratica, lui non partecipa direttamente all’azione. Il suo unico tentativo di interferenza personale ( quando invade la casa di Buffalo Bill a Calumet City ) è uno sbaglio di cui si pente: avrebbe dovuto lasciare tutto in mano a Clarice, come sembrava fosse il suo intuito iniziale. Ma anche i guru falliscono, almeno nella narrativa iniziatica, poichè là loro rappresentano lo Spirito, e non lo sono veramente, ciò che anzi dà la misura delle differenze tra questo genere narrativo e le epopee sacre e mitologiche che ne costituiscono il modello.

Qui devo spiegarmi più accuratamente. Epopee sacre e mitologiche sono quei poemi narrativi che, per tutta una civiltà, hanno avuto il prestigio di possedere delle verità rivelate; dalle quali provengono la cosmovisione, i valori, le leggi e i principi educativi che presiedono la vita di tutta la comunità umana attraverso i tempi. Narrative iniziatiche: sono delle storie prodotte dopo, e che, senza usufruire di questa stessa autorità, funzionano, per certi gruppi e individui, a mo` di insegnamento spirituale o religioso. Le narrative iniziatiche trattano di solito circa aspetti o parti delle epopee sacre, che esse prolungano, illustrano, commentano e specificano, adattando il fondo del messaggio spirituale alla mentalità ed al linguaggio di una nuova epoca. Costituiscono, così, un rinvigorimento, un aggiornamento di certe potenzialità spirituali, che rischierebbero di indebolirsi con il passare dei tempi ai cambiamenti del linguaggio, che possono rendere difficile la lettura e la comprensione diretta delle stesse epopee sacre. Così, per esempio, sono narrative iniziatiche la Divina Commedia di Dante, Il Flauto Magico di Mozart, il Faust di Goethe, la tragedia greca nella sua totalità. I Lusiadi di Camões, La Regina delle Fate di Spenser, e, ai tempi nostri, Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann. Sono epopee sacre i poemi di Omero, il Baghavad-Gita, il Corano, Il Vecchio Testamento, i Vangeli, ecc.

La differenza tra epopea sacra e narrativa iniziatica consiste fondamentalmente nel fatto che gli eroi della prima sono degli dei, semidei o, in un quadro monoteista stretto, aspetti di Dio o forze di origine divina. Gli eroi della narrativa iniziatica, senza avere dei poteri divini nè parlare diretamente in nome di Dio, sono degli esseri umani di stampo eccezionale, protetti o guidati da vicino da forze divine, la cui presenza ed attuazione mondana essi stessi rappresentano in modo più o meno sottile o indiretto.

Sia per l’epopea sacra, quanto che per la narrativa iniziatica i personaggi di maestri o guru rappresentano sempre lo Spirito divino, che conosce tutto in anticipo e dirige dall’alto i passi di un discepolo, il quale personifica l’Anima umana in via di spiritualizzarsi o divinizzarsi. Una netta differenza tra i due generi è che nell’epopea sacra il maestro è lo Spirito divino in modo letterale ed integrale ( nell’Odissea, Mente è Minerva dea della saggezza; nel Baghavad Gita Krishna è un aspetto di Brahma, ecc. ); nella narrativa iniziatica, invece, il personaggio del maestro è soltanto un essere umano più o meno legato da vicino ad un sapere divino; è un sacerdote, un mago, un saggio, e non un essere divino; per questo, nel guidare “divinamente” il discepolo, non è esente da errori umani. Per esempio, Merlin, nel Santo Graal, perde temporaneamente il sopravvento per Morgana La Fata; Sarastro è temporaneamente sconfitto dalla Regina della Notte, ecc.

La narrativa iniziatica, sebbene possegga delle leggi strutturali che la definiscono, può essere innestata in una infinità di diversi generi narrativi, nella letteratura novellistica, nel teatro, nella poesia epica o nel cinema. La sua struttura profonda è compatibile con i rivestimenti più vari, dal fantastico al “realista”. Gli unici elementi indispensabili sono il maestro, il discepolo, l’avversario, e le peripezie che purificano l’anima del discepolo e gli rivelano una conoscenza. L’avversario può essere o una persona ( come nel Flauto Magico la Regina della Notte ) o una situazione avversa e diabolica che sfida l’intelligenza dell’eroe o tenta la sua anima, come ne Il caso Maurizius di Jakob Wasserman. Anche il maestro può essere un personaggio in carne ed ossa ( come Sarastro ), un’allusione mitologica ( Venere ne I Lusiadi ), o un semplice aspetto superiore dell’anima del proprio discepolo ( il magico presentimento che guida Etzel Andergast nel romanzo di Wasserman ). Il punto che interessa, il criterio differenziale che ci assicura che siamo in presenza di una narrativa di questo genere, non è il contenuto materiale degli eventi, ma il rapporto tra le forze, insomma: la struttura della trama.

Molte opere della letteratura, del cinema e del teatro si richiamano all’uso dei simboli e di miti “esoterici”, senza farne narrative iniziatiche. Al contrario, i simboli contenuti in una narrativa acquistano una perfetta funzionalità estetica soltanto quando la struttura profonda dell’operaè quella di una narrativa iniziatica; a parte questo, simboli e miti diventano dei meri orpelli pedanti. La struttura totale e i simbolismi particolari devono essere uniti e legati gli uni agli altri in una disposizione organica, riflettendo una delle principali leggi del linguaggio simbolico, che è quello della corrispondenza tra la parte e il tutto, il piccolo e il grande, il micro ed il macrocosmo. Solo artisti molto abili riescono ad ottenere quest’ordine, per questo una buona parte dell’arte “esoterica” in circolazioneè da scartare.

Sia per la struttura sia per i simboli a cui si riferisce, o per la stretta ubbidienza al principio di corrispondenza, Il Silenzio degli Innocenti si rivela una narrativa iniziatica delle più perfette che il cinema ci abbia mai dato. In esso non esiste un unico riferimento simbolico o mitologico che non si inserisca con estrema adeguatezza e affiatamento alla struttura totale dell’opera, facendo riflettere quest’insieme sulla scala dei dettagli; e la struttura globale, a sua volta ha tutti gli elementi richiesti: il maestro, il discepolo, l’avversario diabolico, le peripezie rivelatrici e purificatrici.

In questo modo,è alquanto naturale che si trovi tra Clarice e Crawford, il rapporto Anima-Spirito, che Crawford sia in apparenza inattivo e in fondo attivo, che Clarice sia fedele all’intuito di Crawford anche quando apparentemente gli disubbidisce, e che Crawford, infine, commetta uno sbaglio nel momento in cui quest’errore sia già miracolosamente corretto dalla Provvidenza. L’anima, nella narrativa iniziatica, è passiva dinanzi allo Spirito, ma attiva dinanzi al mondo; essa lotta, ma con lo scopo di rimanere fedele allo Spirito in un mondo laddove le avversità, tentazioni ed inganni minacciano di trascinarla lontano dalla sua vera vocazione.

Che Jack Crawford, nel film, sia maestro o guru di Clarice, è fuori dubbio. Uno dei colleghi di lei lo cita letteralmente così ( “il tuo guru, al telefono” ). Sarà Lecter, poi, il guru di Buffalo Bill, l’imitazione diabolica dello Spirito che con tanta frequenza sorge anche nelle narrative iniziatiche? Lo vedremo in seguito. Per ora, ciò che è interessante notare è che Crawford, nelle funzioni di guru, mantiene un ruolo discreto di secondo piano, lontano dal centro dell’azione fisica ( salvo che per un errore ), e che, alla fine, si ritira modestamente, lasciando alla discepola gli onori della festa. Così come il Sarastro di Mozart, che, alla fine de Il Flauto Magico, dopo aver articolato e diretto da lontano la lotta di Tamino per liberare Pamina, si dissolve in un alone di luce, lasciando ai discepoli il gaudio della vittoria. È anche topos, uno schema ripetibile. Ma come funziona!

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