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L’arte del porcumentario

Olavo de Carvalho
Primeira Leitura, agosto 2004

http://www.stranocristiano.it/news/news_0409/carvalho_porcumentario.htm

Le lestofanterie di Michael Moore in Farenheit 9/11 sono così tante che questo numero intero di Primeira Leitura non basterebbe per spiegarle una per una. I lettori interessati possono informarsi su alcune di queste sul site http://fahrenheit_fact.blogspot.com/ .

Andate là e verificate da soli se la Reganbooks , editrice del libro di Moore, Stupid White Men , fu saggia e prudente oppure no nel pubblicare, subito dopo il suo libro, per la suprema indignazione di Moore e a beneficio dell’umanità che legge, l’impagabile antidoto scritto da David T. Hardy e Jason Clarke, Michael Moore is a Big Fat Stupid White Man .

Farenheit 9/11 è l’apoteosi della invenzione, uno show di balle come mai si era visto.

È vero che il cinema di sinistra ha una lunga tradizione di questo genere. Sergei Eisenstein usò tutto il suo talento per ingentilire la reputazione di un dittatore macellaio che faceva invidia allo stesso Adolf Hitler. Dziga Vertov inventò il kinopravda (“cinema-verità”), del quale Jeremy Murray-Brown, della Boston University, scrisse in Documentary and Disinformation : «L’uso che Vertov faceva dell’espressione ‘ l a vita come essa è’ era quella di una parola in codice. Il linguaggio dei suoi film era l’equivalente visivo dei testi comunisti: significava l’opposto di ciò che in esso vedevano i non iniziati nel codice. Fino al 1949, quando fu pubblicato 1984 di George Orwell, le persone comuni non avevano la minima idea di come funzionava la lingua doppia comunista. “La vita come essa è” significava precisamente “la vita come essa non è”: un’utopia cinematografica costruita con apparenze di realtà». Durante la guerra, la mafia comunista che dominava Hollywood (cfr. Hollywood Party , di Kenneth Lloyd Billingsley) arrivò al punto di fare un film che celebrava il patto Ribentropp-Molotov. In Italia, Francesco Rosi e altri discepoli di Antonio Gramsci inventarono il film-documento, che camuffava sotto l’aspetto del realismo delle immagini lo schematismo marxista della trama. E nelle terre tupiniquins si fabbricò di celluloide addirittura una Olga Benário che mai fu un agente del servizio militare sovietico.

Ma Michael Moore li sorpassa tutti. Non ha l’eleganza visiva di Eisenstein, la sottigliezza di Vertov, l’astuzia di Francesco Rosi. Non necessita nulla di tutto ciò. Rimpinza lo spettatore di menzogne, e basta. Farenheit 9/11 non è un documentario, non è un film-documento, non è kinopravda : è un porcumentario — il prodotto confezionato da una mente suina.

Un esempio, che di proposito scelgo tra i dettagli di Farenheit 9/11 senza relazione diretta con gli attentati che costituiscono l’argomento principale del film, illustra bene il nostro caso.

Moore cerca di mostrare che, per favorire Bush nelle elezioni, la Data Base Technologies, incaricata di controllare i registri degli elettori, avrebbe escluso da essi migliaia di votanti, di proposito scelti tra negri e democratici. L’accusa è gravissima, però totalmente falsa. Furono esclusi solo criminali condannati dalla giustizia, che la legge della Florida esclude espressamente dal diritto di voto, ma che, per disattenzione delle autorità, avevano votato in massa nelle elezioni municipali di Miami nel 1998. Sotto la pressione dei tribunali, la Data Base semplicemente non fece altro che adempiere alla legge.

La candidatura di Gore fu danneggiata da questo? Sì. Secondo la American Sociological Review , il 69 per cento dei criminali condannati sono simpatizzanti del Partito Democratico. Se la legge li avesse lasciati votare, o se la Data Base non avesse applicato la legge, Gore avrebbe potuto avere circa tremila voti in più e vincere le elezioni, che il suo avversario vinse con una differenza cinque volte minore. La Corte Suprema , riconoscendo la vittoria di Bush, può essere quindi accusata solo di crudele indifferenza alla richiesta del candidato sconfitto perché venissero anteposte le preferenze elettorali dei criminali all’obbligo di adempiere la legge. Moore non potrà mai perdonare la Corte Suprema per questo.

Quanto al dettaglio della razza, Moore descrive con tutta evidenza un crimine impossibile, in quanto l’identità razziale dei votanti non constava nei registri della Data Base. Per un’ironica coincidenza, l’omissione di questo dato fece sì che alcuni cittadini innocenti, omonimi di criminali, non poterono votare. Sebbene numericamente insignificante, l’errore non fu fatto passare inosservato dai simpatizzanti di Gore che lo indicarono come fosse un’esclusione fatta di proposito, ma è ovvio che le due accuse si contraddicono: o il soggetto fu escluso per essere negro, o fu escluso perché, non sapendo quale fosse la sua razza, fu confuso con un’altra persona. Per il colmo della cosa, i casi di omonimia sono stati meticolosamente controllati e si è scoperto che, [del totale degli elettori esclusi, il 23,7 per cento erano cittadini onesti danneggiati dall’errore della Data Base. Di questi, il 9,9 per cento erano bianchi, 8,7 per cento di ispanici e il 5,1 per cento di razza negra. (cfr. New York Post del 12 luglio 2004). Poiché la popolazione carceraria della Florida per il 49 % è negra, è chiaro che, se qualcuno è stato danneggiato, sono stati i bianchi.

Ciò che Moore afferma, ossia che se la Corte Suprema non avesse sospeso il riconteggio manuale che Gore esigeva, la vittoria sarebbe stata di quest’ultimo “in tutti gli scenari possibili”, traduce solo una leggenda urbana alimentata dalla più portentosa macchina pubblicitaria di tutti i tempi. Infatti, il riconteggio manuale è stato, di fatto, eseguito. Fu fatto dai giornali USA Today , Miami Herald e New York Times , al di sopra del sospetto di qualsivoglia complicità con qualsiasi “vasto complotto di destra”, come minimo, visto che essi sono pezzi vitali di quella stessa macchina. E i tre giornali, dispiacendosene molto, sono arrivati alla stessa conclusione: nei voti ricontati il vantaggio di Bush era anche maggiore.

Insomma, non c’è nulla assolutamente che giustifichi l’accusa, se non l’odio che Moore sente per Bush e l’intenzione esplicita di impedire la sua rielezione nel prossimo novembre.

Questo esempio non è un caso isolato, ma un campione tipico del modus operandi del maggior ciarlatano cinematografico di tutti i tempi. Il procedimento si ripete nelle altre 38 menzogne analizzate nel site che ho citato all’inizio, in molte altre indicate perfino dagli intervistati del film, ed è, tra l’altro, lo stesso metodo adottato nel porcumentario mooreliano precedente, Bowling for Columbine . In questo film, la colpa per il massacro intrapreso da due giovani psicopatici, in una scuola di provincia, era attribuita magicamente al fatto della vicinanza di una fabbrica di armi, la cui presenza avrebbe dato il cattivo esempio ai due ragazzi. Solo che, in realtà, la fabbrica non era di armi ma di satelliti. Invece, il vero motivo del crimine – l’odio anticristiano che gli stessi ragazzi hanno registrato in un video – è omesso totalmente nel film.

Ma non è solo per questo che il campione è significativo. Lo stesso procedimento di falsificazione totale e sfacciata forma la stessa struttura della trama principale di Farenheit 9/11 , costituito da una teoria del complotto secondo la quale gli attentati al World Trade Center e al Pentagono sarebbero il risultato di una sinistra trama ordita da George W. Bush e la famiglia Bin Laden.

Il semplice enunciato già dovrebbe essere sufficiente ad evidenziare il livello intellettuale ginnasiale – ginnasiale di Columbine – della speculazione di Moore, il cui premio a Cannes si spiega più che con l’anti-americanismo psicotico imperante in Francia col fatto che tre membri della giuria hanno contratti personali con la Miramax , finanziatrice della produzione del film.

Ma, se anche le ipotesi più stravaganti hanno diritto ad essere investigate, la teoria di Farenheit 9/11 non ammette alcuna investigazione perché è nata già morta. La prova essenziale della cospirazione, al di là della solita accusa di contiguità fondata nelle vecchie relazioni commerciali delle famiglie Bush e Bin Laden (alla quale manca solo l’evidenza delle connessioni attuali tra quest’ultima e il rinnegato Osama), è presentata nel film nel seguente modo: due giorni dopo gli attentati, la Casa Bianca , esecrabilmente, concesse un visto di uscita perché i parenti del terrorista, allora in viaggio negli USA, tornassero in Arabia Saudita, scansando le investigazioni dei servizi segreti americani. Orrore! Tradimento! Perfidia del bushino! direbbe Arnaldo Jabor.

Per sottolineare il significato eminente della prova ottenuta, Moore, aggiungendo alle sue funzioni di sceneggiatore e regista quelle di narratore in prima persona – cosa che lo pone modestamente al centro della storia contemporanea –, domanda: Cosa direbbero i repubblicani di Bill Clinton se, subito dopo l’attentato in Oklahoma (19 aprile 1995), autorizzasse a partire all’estero la famiglia del terrorista Timothy McVeigh? Rispondo io: sarebbe di fatto uno scandalo, soprattutto perché i parenti di McVeigh erano cittadini americani, non stranieri protetti dalla propria ambasciata come i Bin Laden. Però, se tutto il problema fosse una domanda idiota, sarebbe un sollievo. Il problema della teoria di Moore è ben altro, è una malattia congenita, mortale ed incurabile: chi autorizzò l’uscita dal paese dei Bin Laden non fu George W. Bush. La richiesta di autorizzazione per il viaggio non salì lo scalone presidenziale. Chi autorizzò, molti gradini più in basso, fu un funzionario di nome Richard Clarke. Sapete chi è Richard Clarke? Quello stesso che, dopo, si mise a fare denuncie scabrose contro il governo Bush e bruciò in un colpo i suoi quindici minuti di notorietà diventando il Michael Moore dei servizi di informazione. Per apparire un testimone idoneo, Clarke disse di essere elettore repubblicano. Solo che poi si è scoperto che era un democratico matricolato e sostenitore contribuente con finanziamenti. Accidenti! Se George W. Bush, nel caso avesse autorizzato il viaggio, sarebbe diventato sospetto di boicottare in modo deliberato le investigazioni, perché diavolo non dovrebbe diventare sospetto di boicottaggio intenzionale al governo il suo oppositore democratico che autorizzò il viaggio dei Bin Laden sapendo che ciò avrebbe danneggiato l’immagine del presidente e avrebbe potuto perfino diventare un film di Michael Moore? Così è la vita: la semplice firma di un burocrate in un visto di turista si capovolge in una ricercata ipotesi cospiratoria.

E’ evidente che l’episodio Clarke, così meravigliosamente strombazzato nei media quando sembrava un’arma di distruzione di Bush di massa e così rapidamente messo a tacere dopo la divulgazione del fatto che quel testimone aveva mentito circa la sua affiliazione partitica, fa a pezzi la tesi del film e riduce a nulla l’interesse della sua trama.

A nulla? Esagero. Il film è interessantissimo. Non per il suo contenuto, che non va al di là di ciò che abbiamo visto.Neppure per il suo corredo di alte considerazioni morali, che sono di un tartufismo atroce. E molto meno per la sua forma, che – giudicatelo voi stessi – è pura estetica di propaganda elettorale, adornata da alcune ripetizioni del trucco eisensteiniano, conosciuto perfino dagli impiegati delle pulizie degli studios, di giustapporre immagini che non hanno nulla a che vedere una con l’altra per dare l’impressione che invece ne hanno.

Il film è interessante per la domanda che suscita: come può un così ovvio agglomerato di frodi essere accettato come “documentario” dalla classe intellettuale chic e perfino guadagnare un premio, sebbene di un festival di nostalgia senile? Il fenomeno è portentoso, e contiene in sé tutta una sintesi simbolica della rovina apparentemente irreversibile della intelligentzia di sinistra nel mondo. Fateci caso: fino agli anni ’70, non cadere nel volgare pamphletismo era una questione di onore per ogni cineasta o scrittore di sinistra. Lukács, Goldmann, Adorno – e da noi in Brasile un Astrojildo Pereira, un Leandro Konder, un Otto Maria Carpeaux – avevano così fissato nel cuore questo comandamento dell’etica comunista, che chiunque lo infrangesse, anche in nome dei nobilissimo ideale dello stalinismo e del Gulag, era immediatamente espulso dal campo dell’alta cultura per le tenebre esterne della mera agitprop (sigla comunista per “agitazione e propaganda”). Di colpo, tutto questo è finito. Michael Moore finisce molto più in basso del pamphlettismo, sgrufola come un porcello nella voluttà di mentire – e vince un premio! Addio scrupoli! Addio, dignità intellettuale! Addio alta cultura di sinistra! L’odio a George W. Bush è talmente tanto che ciascuno corre per vendere l’onore, la madre, la reputazione, solo per toglierli la presidenza e consegnarla ad uno struzzo imbalsamato, riesumato in fretta dal museo delle leadership posticce. A questo punto, merita addirittura dare un premio a Michael Moore. E’ l’orgoglio della bassezza, l’affermazione gloriosa della superiorità del peggiore.

Non posso, qui, sondare le cause di un fenomeno così allarmante, indice dell’avanzamento della barbarie nel mondo. Suggerisco solo che egli è l’esteriorizzazione apoteotica di un suicidio dell’intelligenza, lungamente pianificato, preparato durante decenni nel recinto discreto del mondo accademico, per mezzo del decostruzionismo, del multiculturalismo, del relativismo, del razzialismo e di tutti i pretesti fintamente eleganti inventati per fare della vita culturale lo strumento del più grottesco immediatismo politico.

Studi storici e analitici di questa lenta e mortale degradazione si incontrano, ad esempio in The Long March e Tenured Radicals , di Roger Kimball, The Killing of History di Keith Windschuttle e Lost Literature di John Ellis. I riflessi del processo nell’educazione delle nuove generazioni sono descritti in Underground History of American Education , di John Taylor Gatto, The Deliberate Dumbing Down of America , di Charlotte Thomson Iserbyt, e The Conspiracy of Ignorance , di Martin L. Gross, tra le centinaia di altri libri che sono usciti sull’argomento.

Il lettore brasiliano, dipendente dai media ormai parcheggiati nella autoglorificazione di sinistra degli anni ’60, non ha seguito nulla di tutto ciò. Molto meno ha una benché minima informazione, per minima che sia, sulla contropartita necessaria a questo stato di cose, ossia l’ascensione dei conservatori, la cui superiorità intellettuale sui propri concorrenti di sinistra è oggi, senza esagerazione, mostruosa, e solo viene velata temporaneamente dal dominio residuale e moribondo che la sinistra ancora oggi esercita nei mass-media. Non dirò di più su questo argomento, perché è una delizia vedere la classe intellettuale locale scommettere tutto nel argumentum ad ignorantiam , usando la sua stessa ignoranza di una cosa come prova che la cosa non esiste e del fatto che sono io che sto inventando. Un giorno tornerò sull’argomento, e vedrete come la principale occupazione di questa casta orgogliosa e pedante è quella di occultare a se stessa – e a voi – quello che accade nel mondo reale. Non stupisce che essa ami così tanto Michael Moore.

I peggiori dei peggiori

Olavo de Carvalho
O Globo, 29 maggio 2004

http://www.stranocristiano.it/index_stampa.htm

Tra le organizzazioni che hanno denunciato il trattamento vessatorio riservato ad alcuni prigionieri di guerra iracheni, vi era la Freedom House , di New York. Ma nessuno, là, ha avuto la benché minima illusione di avere a che fare con fatti di gravità comparabili a quelli che succedono giornalmente nei paesi comunisti e mussulmani. Dico questo non solo perché la differenza tra umiliare prigionieri e torturarli fisicamente è visibile con gli occhi della faccia — a meno di non avere una faccia di bronzo come quella di tanti giornalisti brasiliani — , ma perché poco prima dei fatti di Abu-Ghraib quella ONG aveva pubblicato il suo rapporto The Worst of the Worst: The World’s Most Repressive Societies (“I peggiori dei peggiori: le società più repressive del modo), e basta leggerlo per notare che non c’è paragone possibile tra la condotta degli americani e quella dei loro più infiammati critici.

Incarcerazioni arbitrarie di massa, esclusione dal diritto di difesa, privazione di cibo e una dose formidabile di botte, shocks elettrici e mutilazioni sono la razione usuale offerta ai prigionieri politici di Burma, Cina, Cuba, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Corea del Nord, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Siria, Turkhmenistan, Uzbequistan, Vietnam, Marocco, Russia e Tibet. Di questi diciassette recordisti della malvagità ufficiale, sei sono socialisti, sei islamici, i restanti hanno regimi dittatoriali statali. Nessuno di loro soffre gli orrori del capitalismo liberale, nessuno di loro geme di dolore sotto il calcagno dell’imperialismo americano o della cospirazione sionista internazionale.

In almeno quattro di essi — Cina, Sudan, Vietnam, Tibet —, chi è fuori dalla prigione può essere ucciso in qualsiasi momento nelle operazioni genocide che di tanto in tanto, generalmente per motivi di repressione religiosa, i loro rispettivi governi intraprendono contro le loro proprie popolazioni, con l’eccezione del Tibet dove il servizio è fatto dalle truppe cinesi di occupazione, le quali si trovano là nell’esercizio di un diritto che il nostro presidente della Repubblica guidica insindacabile. Il totale di vittime, negli ultimi trent’anni, è calcolato almeno in quattro milioni di persone — pochezza irrisoria paragonate ai sessanta milioni liquidati da un regime i cui apologisti impenitenti ancora si trovano a volontà nel parlamento brasiliano, dove una volta alla settimana ci onorano con discorsi moralizzanti sulle virtù della democrazia.

Da questi diciassette inferni terrestri, quotidianamente arrivano ai giornali e alle TV appelli disperati in favore di prigionieri sottomessi a torture corporali, ma tali appelli vanno direttamente nel cestino dei rifiuti per non prendere lo spazio consacrato alla denuncia di quei crudeli soldati americani che, in Iraq, filmano prigionieri di guerra nudi senza toccare un unico filo dei capelli della loro testa. Infatti, tortura non è quello che è definito dai dizionari, ma qualsiasi abuso minore che possa essere sfruttato come propaganda anti-Bush.

Possibile che dica queste cose perché sono un fanatico di destra e non perché esiste realmente qui qualche disproporzione accessibile alla pura ragione umana, al puro sentimento di giustizio? La quasi totalità dei giornalisti dell’asse Rio de Janeiro- São Paulo ti dirà di sì, caro lettore. Molti di loro sanno di star mentendo, ma, come direbbe Goethe, non possono abdicare dall’errore, perché devono ad esso la propria sussistenza. Altri si trovano così intellettualmente danneggiati da quarant’anni di privazione di informazioni essenziali, che sentiranno una indignazione sincera davanti a ciò che sembrerà loro una sordida calunnia su ordinazione del capitalismo yankee e, naturalmente, pagata a peso d’oro. E tanto avvallassatore sarà l’impatto di questa emozione nelle loro anime, che la semplice ipotesi di tentare di verificare giornalisticamente la verità o la falsità delle mie argomentazioni suonerà loro come una tentazione abominevole, dalla quale cercheranno rifugio nel raddoppiato esercizio delle loro abituali devozioni e nella riaffermazione dogmatica di una onestà professionale immune da qualsiasi sospetto. Fatto questo, dormiranno in pace, sognando con il futuro socialista nel quale, prometteva Antonio Gramsci, “tutto sarà più bello”.

Arma di guerra

Olavo de Carvalho

Folha de S.Paulo, 20 maggio 2004

http://www.stranocristiano.it/index_stampa.htm

Dal tempo della guerra di Algeria (1954-1962), l’idea di “guerra asimmetrica” è diventata il principio che orienta la strategia anti-occidentale. Ispirato al “combattimento indiretto” di Sun Tzu, la cui “Arte della Guerra” già circolava in edizioni ufficiali nell’ URSS e nei suoi paesi satelliti negli anni ’50, il concetto è, essenzialmente, quello di una lotta nella quale uno dei due lati non ammette freni di nessun genere: può fare quello che vuole e perfino usare come arma gli impegni morali, giuridici e sociali che legano le mani dell’avversario.

La guerra asimmetrica è la sistematizzazione militare della massima enunciata nel 1792 dal deputato Collot d’Herbois, nella Convenzione francese: “Tutto è permesso a chi agisce in favore della rivoluzione”.

Un analista strategico canadese, il capitano di fregata Hugues Letourneau, segnale che il Fronte di Liberazione Nazionale algerino ricorreva normalmente a “scioperi generali, imboscate, terrorismo praticato contro la sua propria popolazione e contro altre organizzazioni algerine di liberazione, assassinii, torture, mutilazioni, sottrazione di grandi somme di denaro alla popolazione civile, sabotaggio industriale ed agricolo, distruzione di beni pubblici, intimidazione e morte di presunti collaborazionisti, campagne di disinformazione, etc.”. Contemporaneamente, qualsiasi minimo atto illegale delle forze di occupazione era usato dalla intellighenzia attivista di Parigi come strumento di ricatto morale per mantenere il governo francese paralizzato dalla paura dello scandalo.

Per avere effetto, l’asimmetria deve impregnarsi profondamente nelle abitudini di giudizio della opinione pubblica, in modo che questa non percepisca l’immoralità intrinseca delle rivendicazioni pretenziosamente morali che fa ad uno dei contendenti mentre concede all’altro il beneficio dell’indifferenza o del silenzio complice.

Un esempio è il dislivello di trattamento dato alle occupazioni di Iraq e del Tibet, orientato in modo da instillare nel pubblico l’impressione che, un’occupazione militare temporanea, calcolata prima come nessun altra per evitare danni alla popolazione civile, sia un crimine più grave della occupazione continua e premeditata di una cultura millenaria e il genocidio permanente che già ha fatto un milione di vittime.

Così, l’asimmetria si è consacrata in tal modo come diritto naturale inerente ad uno dei due antagonisti, che il semplice suggerimento di comparare l’attuale comportamento americano a quello cinese già suona come estemporanea, di cattivo gusto e sospetta di complicità venale con “gli interessi inconfessabili al soldo di Wall Street” (questo stesso articolo, è chiaro, entrerà in questa classificazione). Allo stesso modo, mezza dozzina di abusi sanguinosi compiuti dagli americani in Iraq, inevitabili in qualsiasi guerra per quanto le autorità controllino le loro truppe, già appaiono nei media come crudeltà più odiose della pratica abituale della tortura e degli assassinii politici i tempo di pace, comuni in tanti paesi islamici, senza contare le persecuzioni religiose (mai date come notizia in Brasile), che in tali paesi già uccisero più di due milioni di cristiani negli ultimi anni.

La guerra asimmetrica è più facilmente praticata da organizzazioni rivoluzionarie, esenti dagli impegni che pesano sugli Stati costituiti. Ma alcuni Stati che danno un appoggio discreto a questi movimenti, possono anche loro usufruire della stessa strategia. Un libro recente di due colonnelli cinesi, “La guerra al di là delle regole”, pubblicato nel 1999, mostra che il governo cinese è profondamente coinvolto nella guerra asimmetrica antiamericana. E questa guerra non sarebbe asimmetrica se — misura di quanto rapidamente il suo concetto è divenuto di dominio pubblico — la responsabilità dell’uso massiccio della perversa tecnica non fosse gettata, giustamente, sulle spalle della sua principale vittima.

Pochi giorni dopo l’ 11 Settembre, “Le Monde Diplomatique” parlava, con notevole faccia di bronzo, della “strategia ufficiale americana della guerra asimmetrica”. Non spiegava, naturalmente, come gli USA potessero fare guerra asimmetrica essendo, nel mondo, lo Stato più esposto al giudizio dell’opinione pubblica e non avendo nei media internazionali — anzi, neppure in quella americana — una rete organizzata di collaboratori come quella della quale dispongono i movimenti anti-americani, oggi capaci di imporre a tutta l’opinione pubblica mondiale, in poche ore, la propria versione degli avvenimenti, simulando una convergenza spontanea.

Più efficiente ancora è l’operazione quando viene realizzata in un terreno previamente preparato dalla “occupazione degli spazi” gramsciana, che bloccando e selezionando le fonti di informazione, predispone il pubblico ad accettare come naturali ed innocenti le più artificiose manipolazioni ideologiche del notiziario.

In Brasile, per esempio, è proibito da almeno trent’anni l’accesso all’opinione dei conservatori americani. I loro libri — migliaia di titoli, molti dei quali dei classici del pensiero politico — mai vengono tradotti e neppure risultano in alcuna biblioteca universitaria. Le loro idee arrivano alla conoscenza del pubblico nazionale per mezzo della versione comunista ufficiale, mostruosamente distorta, creata, nel 1971 dallo storico sovietico V. Nikitin nel suo libro “The Ultras in the USA” e fino ad oggi ripassata servilmente di generazione in generazione nelle scuole e nei giornali, da una manica di espertoni coscienti e migliaia di utili idioti che non hanno idea della vera origine delle loro opinioni.

Chi, educato in questo milieu, può sospettare che vi sia qualcosa di errato nel bombardamento di notizie che fanno di George W. Bush una specie di Stalin di destra? Rompere l’accerchiamento è una sfida che solo studiosi applicati possono vincere, mediante sforzi di ricerca che non sono alla portata del cittadino medio. E la voce di questi studiosi suona ridicolmente impercettibile quando tentano di mettere sull’avviso la popolazione circa questa realtà terribile: dall’avvento della disinformazione, nel senso tecnico e letterale del termine, la disinformazione come arma da guerra, è diventata l’occupazione più costante e regolare dei grandi mass-media soppiantando completamente l’incombenza nominale che un giorno fu del giornalismo.

Il pericolo al quale tutto ciò espone la popolazione è mostruoso e non diminuirà fintanto che la società civile non istituirà un “controllo esterno” dei mass-media, sottoponendo a procedimento penale per propaganda ingannevole gli organi che si rifiutassero di trasmettere in modo fedele e quantitativamente equilibrato le informazioni e le opinioni provenienti da fonti opposte tra di loro.

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